L’avversione per lo scrutinio segreto è stata manifestata più volte nelle assemblee legislative italiane, in testa il Parlamento regionale siciliano.
E’ un sentimento – chiamiamolo così – che ritorna con frequenza quando se ne creano le condizioni politiche nelle aule parlamentari. Emerge sempre nei banchi della maggioranza, soprattutto nelle stanze dei bottoni, dove abitano i membri del governo.
E’ l’esecutivo, e quindi virtualmente la maggioranza che gli ha concesso la fiducia in Aula, il potere che giudica lo scrutinio segreto strumento di inquinamento della vita politica, perché consente a “traditori” e loschi figuri di bocciare scelte che la maggioranza, rappresentata dal governo, porta in Parlamento dopo averle decise nel suo interno.
Lo scrutinio palese, sostengono perciò gli avversari dello scrutinio segreto, costringerebbe i parlamentari ad assumersi la responsabilità dei loro comportamenti parlamentari davanti agli elettori, non venendo meno all’impegno, assunto con il partito che l’ha candidato, di rispettare le decisioni democraticamente assunte.
Coloro che la pensano diversamente, generalmente componenti dell’opposizione politica, dentro e fuori le aule parlamentari, pongono invece l’accento sulla libertà di mandato concessa ai parlamentari. Il vulnus alla democrazia verrebbe inferto abolendo il voto segreto. Perché? Invece che ragionare con la loro testa e decidere secondo coscienza e scienza, i componenti delle assemblee sarebbero obbligati ad obbedire a decisioni che non condividono. Spogliati della libertà di opporsi, senza tema di sanzioni, i dissenzienti rimarrebbero in balia dei “capi”, e quindi impossibilitati ad opporsi a proposte giudicate nocive dell’interesse generale.
In questo contesto, puramente teorico, si svolge una curiosa pantomima, che trasforma il dissenso in assenso e viceversa. Avversari e fautori dello scrutinio segreto cambiano opinione sulla questione senza cambiare casacca: coloro che esercitano il ruolo di maggioranza e di governo professano la loro avversione irriducibile allo scrutinio segreto, mentre l’opposizione parlamentare lo difende a spada tratta, come fosse l’ultima spiaggia per la democrazia parlamentare.
Questa fisiologia del voto nelle assemblee legislative, è uno dei fenomeni più curiosi della vita parlamentare, ma non certamente l’unico. Basti ricordare l’introduzione, ormai lontana nel tempo, della maggioranza presunta nelle aule parlamentari. E’ una regola, adottata in quasi tutte le assemblee, che considera “affollata” un’aula parlamentare anche quando ci sono quattro gatti, a meno che non ci siano membri (delle assemblee) in misura congrua, che richiedano la sua verifica. Ove la presenza fosse così modesta da non permettere la conta dei presenti, la maggioranza presunta, i quattro gatti insomma, è sufficiente per continuare l’attività parlamentare.
Succede raramente, è vero, ma fino a qualche anno fa era una consuetudine in occasione del voto sul bilancio interno dell’Assemblea regionale siciliana, per citare un solo esempio.
Torniamo al voto segreto, oggetto di tante dispute.
Recentemente a Sala D’Ercole, l’Aula dell’Assemblea regionale siciliana, è accaduto un episodio che non ha precedenti: il presidente regionale, Nello Musumeci (nella foto), ha minacciato di non partecipare alle sedute del Parlamento fino a che sarebbe rimasto in vigore il voto segreto. La sua protesta traeva origine dalla bocciatura di una proposta di legge del governo sul sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti in Sicilia.
Digerito con un forte mal di pancia lo scacco subito in Aula, il presidente regionale ha archiviato la minaccia, ma non ha fatto alcun passo indietro sulle sue posizioni, che aveva peraltro illustrato in più occasioni da quando ha conquistato Palazzo d’Orleans. Non disponendo di una maggioranza effettiva – sulla carta ci sarebbe – il suo proposito è destinato ovviamente a rimanere nel mondo dei sogni, come è accaduto a suoi predecessori.
La questione è più complessa di quanto sembri: l’avversione per lo scrutinio segreto nasce “altrove”, esattamente in un articolo della Costituzione italiana, che afferma a chiare note la libertà del mandato parlamentare. Perché possa essere pienamente esercitato, esso ha bisogno di armi che lo difendano, appunto lo scrutinio segreto.
Occorre perciò allargare il tema e porsi una domanda: è un bene assegnare al partito, o al gruppo parlamentare cui si appartiene, il potere di decidere sempre e comunque sulle scelte che il deputato compie, o la spoliazione della libertà di mandato avvilisce la democrazia?
I partiti non sono ancora oggi tenuti a regole interne che rispettano la democrazia e quando ce l’hanno fanno fatica a sottoporsi alle regole. Il fenomeno delle scissioni è incoraggiato da una antica avversione verso le decisioni della maggioranza. I partiti nascono talvolta dopo una cena fra quattro amici e si espandono attorno ad una corte di legulei che fanno il bello e il cattivo tempo.
Cancellare i presidi di libertà del deputato, nonostante il cattivo uso che ne fanno i franchi tiratori (o cecchini), senza una regolamentazione della vita dei partiti politici, rischia di peggiorare il livello, molto modesto invero, della democrazia parlamentare.
Diamo uno sguardo alla toponomastica parlamentare. Dall’inizio della legislatura si sono verificati 85 cambi di casacca nel Parlamento nazionale, 56 nel solo mese di settembre del corrente anno soprattutto a causa di scissioni intervenute nei partiti (ma non solo).
Siamo sicuri che la libertà di mandato, così ampia e risoluta, rispetti la volontà dell’elettore?
I cittadini scelgono il candidato nell’urna, perché hanno fiducia in lui e nel partito che lo candida. Se l’eletto abbandona il suo partito, gli volta le spalle, tradisce il suo elettore.
Musumeci sa bene come stanno le cose. Potrebbe avere tutte le ragioni di questo mondo a protestare per la bocciatura della sua proposta di legge sui rifiuti, provocata da franchi tiratori, ma non può ignorare che da deputato dell’opposizione, per molti anni, ha sostenuto lo scrutinio segreto e la libertà di mandato, preziosi strumenti per gli schieramenti di opposizione.
Il direttore del Corriere di Gela mi ricorda, ogni volta che concorda come me un articolo, di non lasciare fuori la città. Fa bene a pretendere un’ottica che comprenda anche la realtà locale, ma ci sono temi, come le regole parlamentari, che presidiano le scelte dei rappresentanti del popolo e quindi influenzano, in modo decisivo, la sorte delle proposte parlamentari, in definitiva il corso delle cose. Potremmo fare un lungo elenco di episodi che hanno impedito, per esempio, a Gela di diventare capoluogo di provincia regionale a causa della presenza del dissenso trasversale nei partiti e gruppi parlamentari dell’Ars.