Cade sotto i colpi del voto segreto uno dei punti cardine dell’azione del governo isolano presieduto da Renato Schifani: il ddl sulla reintroduzione del voto diretto per le province in Sicilia.
Il presidente della Regione, presente per l’occasione all’Ars e uscito in fretta e furia dall’aula dopo l’esito del voto, stecca un appuntamento importante, colpito anche dal fuoco amico – presenti 65 deputati al momento del voto di cui 36 in seno alla coalizione di centrodestra -, aspetto che mette in crisi gli equilibri di sistema all’interno della maggioranza. La richiesta del voto segreto su un emendamento soppressivo è arrivata dalle opposizioni, in particolare si decideva in merito all’articolo 1 del ddl sull’elezione diretta dei presidenti e dei consiglieri provinciali.
Il lancio di agenzia, di cui offriamo l’incipit per il suo valore storico, non coglie di sorpresa gli addetti ai lavori, sparuta minoranza nella Sicilia che attende da Palermo segni sul futuro prossimo venturo. Gli altri infatti hanno la percezione che l’Assemblea regionale siciliana abbia portato a termina la “controriforma”, cioè il ritorno alle vecchie province con gli amministratori eletti con vito diretto e alla larga schiera di capetti e cacicchi che vegetano ed inseminano nei capoluoghi.
Quel che è accaduto a Sala D’Ercole, sancta sanctorum del parlamentarismo siciliano, non ha niente a che vedere con l’iter corrivo della controriforma, ma segna semplicemente una tappa dell’infantilismo politico siciliano, che abdica perfino alle sue ambizioni quando è impegnato in una guerra all’arma bianca, fatta di ripicche vendette e biechi sentimenti, contro gli invasori.
La bocciatura dell’elezione degli amministratori provinciali è una risposta, a stretto giro di posta, al voto parlamentare che ha bocciato una proposta di legge sulla eleggibilità degli ineleggibili, postulando una retroattività platealmente incostituzionale. La proposta di legge è stata fortemente perorata da Fratelli d’Italia, perché gli ineleggibili da rendere eleggibili appartengono alla destra di Giorgia Meloni e i primi dei non eletti, sulla carta “fratelli italiani”, non davano eguale affidamento.
In un contesto normale, il problema non si sarebbe posto, ma questa è la Sicilia politica: le decisioni sfuggono ad ogni interpretazione diligente e conducono nella palude dello sgarro, della malacreanza, della bottega da custodire. E’ una palude limacciosa mascherata di una flora artificiale, che sembra inventata dall’intelligenza artificiale – meglio, dall’idiozia artificiale – tanto avulsa dalla realtà appare.
In conclusione lo stallo di Sala d’Ercole non sposta nulla, né un passo avanti, né un passo indietro, alle province, commissariate dal giorno in cui l’allora Presidente regionale Crocetta proclamò l’adesione alla volontà statutaria – lo Statuto speciale della Regione siciliana – dove una norma scritta dai padri costituenti spazza via le province fondate dal Fascismo e mantenute, con alcuni accorgimenti, integre, negli anni in cui la prima repubblica in Sicilia era alla vigilia del coma.
Chi ritiene di potere annoverare il voto di Sala D’Ercole come segno di resipiscenza e momento di riconsiderazione della questione, dovrebbe rileggere gli eventi recenti e approfondire le conoscenze sulla storia dell’autonomia, subaffittata a coloro che non la rispettano. Lo sprovveduto non dispone della lanterna ad olio per fare un po' di luce fra facce di bronzo e spiare nelle stanze dei bottoni assuefatte al tira a campare.
Appare perciò del tutto fuori dalla realtà riproporre le ragioni dei Consorzi scelti dai cittadini, la Sicilia profondamente mutata rispetto al tempo delle diligenza; la Sicilia delle città egemoni in settori vitali dell’economia siciliana, come l’industria, le tecnologie, l’energia, l’agricoltura “avanzata”, i nuovi mercati, i servizi (a partire dai presidi della salute), e i bivacchi delle burocrazie.
Una domanda dobbiamo porcela, comunque. Quando finirà la faida, che ha gettato nello scoramento Renato Schifani al punto da fargli perfino balenare l’idea di dimissioni, resa pubblica giusto per spaventare coloro che siedono sui banchi di sala d’Ercole, assai affezionati alle poltroncine conquistate con enorme dispendio di energie fisiche e risorse economiche?
Finirà quando si tornerà al voto palese, che ha subito una imprevista pausa provocata dalla litigiosità della coalizione di maggioranza, e si dissotterrerà l’ascia di guerra, cioè gli scrutini segreti riservati alla proposta di legge sull’eleggibilità degli ineleggibili e sull’elezione diretta degli amministratori provinciali. A pace fatta, trovata la quadra, il voto palese farà sparire i franchi tiratori, che hanno reso contendibili gli equilibri politici nati dalle consultazioni regionali.
Che cosa attendersi? La celebrazione dei riti delle maggioranze in crisi di intenti e di patteggiamenti: rimpasto della giunta di governo soprattutto. A Roma nel frattempo si vota per l’autonomia differenziata e il premierato, due questioni che segneranno pesantemente il futuro della Regione siciliana, e non solo. Non è in pericolo la specialità, perché non esiste ormai da tempo, ma una sorta di marginalizzazione delle regioni meridionali, che si confrontano con un gravoso deficit di servizi in ogni settore della vita pubblica, dai trasporti alla sanità.
Su questi temi il Parlamento siciliano non si è espresso. Una enormità in considerazione del peso che le riforme eserciteranno sul futuro dell’Isola.