Editoriale/ Gela, il mare tradito

Editoriale/ Gela, il mare tradito

Quaranta anni sono tanti, alla fine del ’78 ho lasciato Gela, ma possono essere pochi, se ti sei portato quel che conta.

Non è il bagaglio a mano, è ben altro: ciò che connota la tua esistenza, ti rende riconoscibile (a te stesso, anzitutto). Una specie di carta d’identità morale e culturale. I ricordi, certo; ma non solo. Il contesto soprattutto, che non è relazioni personali, consuetudini, routine. Non solo quello.

Se dovessi decidere che cosa mi lega maggiormente alla mia terra, metterei in cima la natura, il paesaggio, la casa comune. Ascoltare il paesaggio è un modo per connettersi con il mondo che ci circonda e con noi stessi, un modo per imparare e crescere, per diventare persone più consapevoli e responsabili. 

Se il paesaggio ci parla, ci racconta molte cose: la storia della Terra, del tempo e delle persone che l'hanno abitata. Ci racconta dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni, di noi stessi; ci racconta che siamo parte di un mondo più grande di noi, che siamo connessi alla natura e alla storia.

Un paesaggio danneggiato, come un'area disboscata o inquinata, ci parla dei danni che l'uomo può causare al mondo. Un paesaggio che s’impone ai nostri occhi, che vive insieme a noi il presente, è un libro di storia aperto, che si lascia sfogliare e leggere. 

Quante volte lo ignoriamo: ciò che si ripete davanti ai nostri occhi o si ascolta con frequenza, perde interesse. Della natura ci ricordiamo quando crediamo che tradisca, che si ribelli, che provochi sofferenze. Se ci comportassimo allo stesso modo con coloro che ci stanno accanto, ci amano senza chiederci nulla, sapremmo quanta ingratitudine c’è in noi verso la natura. 

Mi è capitato di osservare con curiosità e sorpresa la lunga linea dritta dell’orizzonte marino che racchiude in una conca il grande golfo di Gela, di immaginare la città distesa sulla collina ed ai piedi di essa senza il suo mare, senza quel confine che non c’è. Mi sono chiesto che cosa vuole dirci quell’orizzonte immaginario? I limiti della nostra visione o la grandezza di essa?

Meditiamo pure le nostre risposte, ma di una cosa dobbiamo esser certi: è quel mare, quel golfo che ci ha fatti ciò che siamo. Figli di uomini e donne che sono arrivate da ovunque, hanno scritto un giorno dopo l’altro, la nostra storia, a cominciare dai coloni rodio-cretesi, che arrivano dalla turbolenta Grecia, portandosi dietro cultura, tradizioni, consuetudini, parole, gesti, pensieri, sentimenti, fino ai nostri giorni, l’ieri del golfo affollato di lampare, delle indimenticabili notti blue popolate di stelle. Il golfo dovette essere sembrato immenso ai nostri progenitori, e il fiume, chiamato Gelas, una sorta di accesso verso luoghi sconosciuti, eppure già esplorati chissà quanto tempo prima. 

Il fiume, navigabile, era il porto di Gela. Accanto ad esso sorsero monumenti e templi, così imponenti da far credere agli arabi, mille e cinquecento anni dopo, che quel luogo meritasse di chiamarsi “città delle colonne”.

Nel sesto secolo a.C. Gela divenne potente e supponente. La cavalleria di Ippocrate la rese invincibile, il mare la fece il centro dei commerci con l’altra sponda del Mediterraneo. Gelone, tiranno di Gela, succeduto ad Ippocrate, decise di trasferire la capitale dell’impero geloo da Gela a Siracusa, che dispone di un porto naturale sicuro e vicino ai parenti-serpenti che abitano le coste greche dell’Ionio. 

Gela, città aperta, a causa dell’ospitale immenso golfo, restò la porta della Sicilia greca. I successi militari non gli fanno guadagnare alleanze siciliote; e i geloi che hanno fondato Agrigento, tradiscono. Non si fidano del mare? Di sicuro non se ne fida il grande Imperatore Federico II, che volle la rinascita di Gela, e ottenne la sua devastazione, perché per costruirla si servirono delle colonne, dei templi e dei monumenti geloi. Buone intenzioni e cattivi consigli. Quando gli uomini credono di creare il paesaggio, finiscono con il devastarlo. 

Negli anni venti e trenta del XIX secolo, la Sicilia, e non solo, scopre la sabbia colore della paglia, come scrive Quasimodo, le dune grandi ed in movimento, che ne fanno un’impareggiabile stazione balneare, sulla quale nascono dei lidi, uno in cemento e l’altro di legno. Le dune portano allo scoperto le mura timoleontee, del terzo secolo avanti Cristo, e grazie alle campagne di scavo, santuari ricchi di reperti archeologici di raffinata fattura prodotti a Gela e importati dalla madrepatria, Atene e Creta. 

Millecinquecento anni dopo, il mare si riprende il centro della scena: nel secondo conflitto mondiale gli angloamericani decidono di scegliere il golfo di Gela per iniziare la loro campagna militare contro il nazifascismo. Il fiume è divenuto un fiumiciattolo, ed il golfo torna a regnare, stavolta grazie ai suoi bassi fondali e alla vecchia attitudine all’ospitalità: non c’è approdo migliore per quel migliaio di navi degli alleati. 

Cala il sipario sul conflitto, Gela dispone di un pontile sbarcatoio, che permette il commercio di piccole derrate alimentari, e qualcos’altro. C’è anche il porto rifugio, che non serve a niente: il gioco delle correnti l’interra in breve tempo, bloccando l’accesso. Faccio un altro salto; circa mezzo secolo dopo sbarcano le trivelle, a mare e sulla pianura. Il petrolio pretende l’attracco di grandi navi, e viene realizzato il porto-isola.

Un pontile lungo più di un chilometro ed al largo una “corona” di protezione, laddove i fondali sono profondi. Ma non è affatto ospitale, favorisce l’attracco delle petroliere, le misure di sicurezza non consentono il traffico merci e passeggeri. Gela non c’entra niente, né con il traffico portuale né con il petrolio.

Nel frattempo, il pontile sbarcatoio sprofonda nel tratto centrale. E il mare subisce per tre decenni, forse di più, le malandrinerie del petrolio. Le petroliere lavano le taniche al largo, colorando il golfo di chiazze nere. La spiaggia di Gela muore di… progresso.

Oggi Gela dispone di tre strutture nate per servire il traffico marittimo, ma nessuna di esse è utilizzabile. Non credo che esista un altro esempio di spreco e villania politica. Marina di Ragusa, ad est, ha realizzato un porto turistico che accoglie centinaia di natanti e ha ridato fiato all’economia della provincia. Ad ovest, Licata dispone di una marineria molto attiva, di attrezzature marittime che accolgono natanti di varia stazza, e la città sembra conoscere un periodo di sviluppo, legato al mare. E’ una dura lezione. 

Il mare di Gela racconta di come gli esseri umani hanno interagito con la natura nel corso dei secoli, e dei danni che l'uomo può causare. Come ascoltare il suo linguaggio? Il mare può riflettere il cielo in modo perfetto, ma senza vita. Un luogo vuoto e abbandonato, come se attorno a sé tutto avesse perso la speranza.

E mantenere una forza potente e imprevedibile; quando si sente tradito, mostrare la sua rabbia e il suo dolore in molti modi, essere capace di grande violenza.

C’è una chiesa a Gela, la Chiesa del Carmine, che ospita gli “ex voto” di marinai sopravvissuti alle tempeste a ricordarcelo. Allora sì, il mare parlava e gli uomini ascoltavano, rispettosi e guardinghi; sapevano che un mare calmo e piatto, può esprimere tristezza e disperazione se si sente tradito. E che cosa è se non il segno di un tradimento, di insolente disinteresse il golfo abbandonato, con i suoi moderni ruderi inospitali?