La squallida storia della Preside di Palermo, Cavaliere della Repubblica, che porta a casa manicaretti e utensili destinati ai suoi studenti e pagati con risorse pubbliche, ha riportato all’inferno l’antimafia, ricordandoci che questo mondo così composito non è abitato solo da persone per bene e onesti servitori dello Stato, ma anche da mariuoli, malfattori, insiders fantasiosi alla ricerca di prebende, potere e denaro sonante.
Si ha il dovere di andare al di là delle beatificazioni frettolose e degli innamoramenti a prima vista, c’è ormai una collezione di sconcertanti delusioni che ci ammonisce dal prestare fiducia a cuor leggero. Lo dobbiamo a noi stessi, per non recitare, inconsapevoli, il ruolo di utili idioti, ed a coloro che l’antimafia la fanno, con ostinazione, competenza e rigore, e le tante persone per bene che scendono in piazza con il cuore spezzato dall’indignazione.
Gela ha vissuto il ventennio di mafiaville: una storia devastante, sangue sulle strade e una comunità spossessata delle sue libertà e della sicurezza. E’ stato perciò il terreno fertile, purtroppo, per sperimentare arrampicate politiche e sociali. Carriere fulminanti, che si sono frantumate di colpo, per incompetenza, ingordigia, arroganza, o sono sopravvissute per inerzia, sconfessate dalle comunità che le avevano promosso e sostenute con insospettata devozione.
Avventurieri sono stati travolti da scandali, o messi all’angolo dalla spregiudicata costruzione di clientele e relazioni opache, e da un immaginario rubato alla memoria dell’antimafia, con le sue vittime e le sue persone per bene, e alla lunga smascherato.
La meritocrazia antimafiosa è stata abbondantemente usata e oggi ci tocca di guardare l’abisso morale cui si può giungere: perfino la “roba”, arraffata senza scrupoli, è stata spogliata della dignità verghiana, precipitando in una sorta di bolla morale.
La vicenda della Preside ingorda sarebbe stata raccontata come un episodio di ordinaria corruttela, seppure di infinito squallore, senza la sua scalata antimafiosa, costruita in un quartiere palermitano, lo Zen, icona dell’emarginazione e del degrado, e in una scuola intitolata ad un magistrato, Giovanni Falcone, che ha pagato con la vita la sua antimafia.
Lo sdegno e il coraggio sono essenziali nelle battaglie di civiltà, ma pretendono un forte radicamento nella realtà, e una visione laica del mondo. Non è un mondo di santi e di miracoli, quello dell’antimafia; non potrebbe esserlo.
Le cronache recenti ci ricordano che la diffidenza, mirata e ragionata, verso i grimpeurs fulminati sulla via di Damasco, verso narcisi e egotisti a tempo pieno, ammantati dall’aura dell’antimafia, può prevenire delusioni, deplorazioni, esecrazioni a tempo scaduto, e danni enormi alla cosa pubblica.
Il bisogno di certezze, e di eroi, trasforma persone di forte ingegno in folle plaudenti o, al contrario, in nichilisti incapaci di dare fiducia a chicchessia. Confidare nell’unto e alzare il muro della diffidenza senza riparo, finisce con l’aprire una voragine, e farci sprofondare nel vuoto di valori e intenzioni, che fa la fortuna dei peggiori.
L’antimafia delle coscienze, della società civile, dei civil servant e servitori dello Stato, è stata espropriata, in qualche misura, dall’antimafia dei cavalieri senza paura. Quando la mafia era siciliana, una sorta di malattia topica favorita dai cromosomi isolani, e l’antimafia, come categoria, era pressoché sconosciuta, il giornalista Enzo Biagi, chiese a Luciano Liggio, boss dei boss dal 57 al 74 e mitico re dei corleonesi, se esistesse la mafia. “Se esiste l’antimafia, vuol dire che….”, rispose Liggio; e pare che abbia sorriso, sotto i baffi.
Si discetta sulla ingenuità di Biagi e sulla furbizia di Liggio; quello scambio di vedute è diventato l’epigrafe di un tempo così lontano da apparire anacronistico, ma non è così. Esso invece è ancora oggi l’icona di una realtà, che ci guarda, alla quale invece guardiamo poco, preferendo il plauso o il dissenso radicale.
Se ci riflettete un po', ad inventare l’antimafia, il neologismo più citato, è stato il boss dei boss, Luciano Liggio. Spetta a lui il “brevetto”, ed a giudicare come vanno le cose, non si può certo rimproverargli l’assenza di lungimiranza.
Qualcuno, Leonardo Sciascia, capì per tempo che archiviando il buonsenso e costruendo una èlite di combattenti, si sarebbe rischiato la deriva, ma lo crocifissero, lo sospettarono che stesse indebolendo ed isolando i paladini della lotta a Cosa nostra, e lo collocarono sbrigativamente dalla parte sbagliata, aprendo la stagione dello shopping di candidati antimafiosi per trarne vantaggio in termini di consenso elettorale.
Insolentire Leonardo Sciascia non è stata solo un’ingiustizia, ma anche una inappropriata e strumentale adozione di simboli, che non ha fatto crescere le risorse genuine della società civile.
In questa corsa all’imprimatur antimafioso, sono stati gettati in prima linea dai partiti, la sinistra più che ogni altri, coloro che hanno perso i propri cari per mano mafiosa e ne custodiscono gelosamente e con tenacia la memoria. Non è una pagina di storia di cui andare orgogliosi. Il governo delle istituzioni merita rispetto, quanto i congiunti delle vittime, colpiti dalla tragedia.