Ogni volta che apprendo, e ciò avviene con frequenza, di un suicidio o tentato suicidio a Gela, cerco per quanto possibile di affrontare l’episodio con equilibrio, tenendo conto della sua complessità e della sua universalità.
La stessa frequenza con la quale mi sembra di registrare il fenomeno nella comunità locale, potrebbe risentire di una sensibilità che pregiudica una serena e più generale valutazione. Arrossirei se ne facessi una questione locale, ma ancor più mi rammaricherei lasciando ai margini le specificità territoriali.
Al diritto di vivere può rinunciare solo chi ne è in possesso, ovunque nasca. Ma già questa enunciazione mi appare carente, perché ignora la responsabilità sociale. Togliersi deliberatamente la vita, a Gela, come altrove, è una decisione provocata da un momento di sconforto, da un trauma recente (o antico, non rimosso), dalla incapacità o insipienza di affrontare vicende che pregiudicano la propria persona, i propri interessi.
Eppure, rispetto a questa vasta gamma di motivazioni, colui che mette fine alla propria vita generalmente “lascia un vuoto incolmabile”. L’ho letto molte volte, anche recentemente, quando il 14 marzo del corrente anno un broker finanziario si è gettato dal balcone, abbandonando moglie e due figli.
Mi pare di ricordare che qualche anno fa, la data non mi sovviene, un altro broker si suicidò, lasciando un vuoto incolmabile. Le liturgie degli informatori, appaiono così anacronistiche e povere, da insinuare perfino il sospetto che si tratti di una pratica burocratica da concludere con il visto finale.
La realtà è che chi racconta come stanno le cose non sa niente e deve buttare giù le quattro righe per adempiere al proprio dovere. E se non sa niente, vuol dire che non ha informazioni; quando ce l’ha, non se la sente di azzardare una ipotesi.
Non potrebbe essere diversamente, dal momento che, a rigor di logica, se le ragioni del gesto fossero note, ci sarebbe da indagare sulle cause che hanno impedito all’aspirante suicida di attuare il suo proposito. C’è dell’altro: la memoria di chi se n’è andato gode di un sacrosanto diritto all’oblio, che nel tempo si elabora attraverso una generosa indulgenza.
Nel caso del suicida, in più, si insinua una poco caritatevole considerazione, secondo la quale comunque siano andate le cose, il suicida paga con gli interessi, anche quando ha un groppo non risolto nella coscienza.
Alla luce di queste elementari osservazioni, la banalità delle liturgie post-mortem, che evocano la mitezza e la serenità dell’estinto, la sua dedizione per il lavoro e la famiglia, la docilità del carattere, perfino la natura cordiale e aperta. E allora, perché?
Ci sono i casi in cui si uccidono i propri figli per uccidere se stessi: come dimenticare le due mamme gelesi irreprensibili che adoravano le loro creature, che hanno tolto la vita alle due figlie. Avviene anche che le vittime siano suicidate, che cioè il suicidio nasconda un delitto. Quando accanto al vuoto incolmabile ci sono elementi per porsi domande, l’indulgenza verso il caro estinto diviene complice di un crimine.
Adagiatasi sul bagnasciuga l’onda emotiva, rimosso il lutto, Il silenzio è velenoso, specialmente nei giorni che precedono l’evento letale. Nei casi di suicidio conclamato è, addirittura, la condizione determinante ai fini della prevenzione.
La solitudine è il terreno di coltura. Tenersi tutto dentro, assenza di dialogo, sono l’arsenico per il suicida. L’aspirante suicida non può essere lasciato solo con se stesso, il giudice più severo e risoluto.
Gela, tuttavia, ha le sue peculiarità, e di esse dobbiamo prendere coscienza. Mi riferisco alla delittuosa assenza di presidi sanitari per chi soffre di disturbi mentali. Ci sono circa 2500 pazienti con disturbi mentali che vengono assistiti in modo inadeguato, con due psichiatri e alcuni assistenti. Il reparto di salute mentale dell’Ospedale Vittorio Emanuele è stato smantellato a causa del Covid, e quindi non si può provvedere al ricovero di pazienti.
Gela inoltre ha subito per circa sessanta anni le conseguenze pesanti dell’inquinamento industriale legato alla presenza di un grande stabilimento petrolchimico, ubicato a ridosso del perimetro urbano.
Uno studio sull’incidenza specifica dei metalli pesanti, scaricati nell’aria e sui terreni, non è mai stato portato a termine, nonostante si abbia notizia di due campagne di ricerca dell’arsenico nel sangue e nelle urine, finanziate da Cnr e Regione Sicilia (la Sebiomag del 2008-2009 e la SePias del 2011), che hanno accertato la presenza di tale metallo sul 25% di un campione di 500 persone individuato tra Gela, Butera e Niscemi.
L’arsenico pericoloso è quello organico (non smaltibile con le urine) riscontrato sul 27% di 250 persone selezionate nello stesso campione. La tossicologa Francesca Di Gaudio, che ho intervistato circa sette anni or sono, mi ha riferito che“le neuropatie sono prevedibili in un’area ad alto rischio ambientale, come Gela”. Psichiatri, tra cui Giuseppe Arancio, hanno detto che “i metalli pesanti possono causare danni organici al cervello ma non danni funzionali”. “Un soggetto – ha spiegato anni or sono il sociologo Angelo Margiotta, del centro di salute mentale (Csm) di Gela – può decidere di suicidarsi per mille motivi”.
L’inquinamento è araba fenice. Se ne parla, correttamente e con scienza e coscienza, ma non può essere portato in giudizio con le carte a posto. Non tanto e non solo in un’aula di tribunale, quanto nella organizzazione dei servizi di prevenzione e dei presidi di assistenza e cura. L’impossibilità di accedere a dati certi, assolve tutto e tutti. Lo sanno bene quanti, vittime o congiunti di vittime dell’inquinamento, si rivolgono alla magistratura.
Il sociologo del Centro di Salute Mentale che discetta sui suicidi di Gela, ricordandoci che “il soggetto può decidere di suicidarsi per mille motivi”, ha scoperto, ahimè, l’acqua calda. Chi potrebbe arrogarsi di sostenere il contrario?
La questione è di pertinenza della tossicologa Di Gaudio, la quale, senza smentire il sociologo, ricorda che i metalli pesanti come l’arsenico, circolanti nell’aria e nel sottosuolo, possono influire sulla salute mentale. La qualcosa non significa che ci si uccida per questa ragione, ma che si sono create condizioni psicofisiche che predispongono alla malattia.
Se abbiamo contezza che la genetica può essere concausa di una malattia, perché ci è impedito di avere le conoscenze adatte, e sapere in che misura incide la presenza dei metalli pesanti come concausa di disturbi mentali? Quesiti altrettanto pressanti ci propongono i presidi sanitari, molto carenti.
La comunità non conosce il suo stato di salute, e non ha l’assistenza cui ha diritto se una potenziale, quindi prevedibile malattia è conclamata. Su quali dati di fatto il management sanitario – regionale, nisseno – organizza i presidi di salute mentale? E per quali ragioni una popolazione di pazienti così folta, è affidata a due medici, e non può quindi assistere convenientemente gli assistiti?
Qualche sospetto lo nutro da tempo. La nascita di presidi sanitari è influenzata dal comparaggio politico, gli studi sull’incidenza dell’inquinamento sulla salute dei cittadini sono scoraggiati, per usare un eufemismo, dalle lobby industriali, pubbliche e private, interessate ed evitare giudizi di responsabilità nelle aule dei tribunali.
Il risultato è che dobbiamo accontentarci della liturgia post-mortem del suicida e dalle lacrime di coccodrillo dei rappresentanti delle istituzioni, con le mani legate, bravissimi a piangersi addosso, meno bravi ad affrontare e rappresentare le questioni per le quali sono stati scelti, se necessario a muso duro.