E’ misterioso lo straordinario attaccamento che i cittadini di Gela hanno per l’elevazione della loro città al rango di capoluogo.
Le città-capoluogo in Sicilia occupano gli ultimi posti nelle classifiche dei servizi, reddito e tenore di vita. Niente accade senza una motivazione, ogni evento ha una causa. E quando non la si trova, vuol dire che non è stata cercata come si dove o che è stata ben “depistata”. E’ un assioma che vale sia per i grandi sconvolgimenti quanto per i più banali episodi.
E allora perché si anela a questo risultato? Il campanile sarebbe la causa recondita? Non credo, bisogna andare più a fondo. Il mito di Gela provincia nasce dalla considerazione, in sé legittima, che la città abbia diritto all’autogoverno e all’assegnazione di un ruolo paritario con il suo capoluogo, Caltanissetta.
Questa motivazione ne sottende un’altra, che non è mai stata svelata nemmeno dai più tenaci assertori del “riconoscimento”, che cioè la città, di gran lunga più popolosa e vivace del capoluogo (industria, commerci, attività marittima ecc.) subisca un deficit di servizi di prima necessità, perché la loro organizzazione e distribuzione non rispetta gli effettivi bisogni del territorio. Se le carenze e le imperdonabili lacune, per esempio, nel settore sanitario, sono giudicate intollerabili, la ragione sarebbe precipuamente l’assenza di equità nel capoluogo. Ma nemmeno questa motivazione appare esaustiva.
E’ innegabile che le risorse non sono distribuite a misura dei bisogni, ma è sbagliato credere che sia Caltanissetta la “matrigna” e che sfuggendo ad essa si abbiano immediati e sostanziosi miglioramenti. Le risorse sono, infatti, frutto di sapienti contrattazioni nei luoghi ad esse deputati, e cioè l’Assemblea Regionale Siciliana, dove anche a causa di regolamenti interni insidiosi e inadeguati, ogni decisione o delibera passa attraverso le forte caudine dei veti e degli interessi contrapposti, nemmeno troppo velati.
I parlamentari regionali conquistano lo scanno sventolando una bandiera, il localismo, ma quando lo occupano l’unica bandiera che sventolano porta il loro nome, cognome ed indirizzo di casa. La cultura del bene comune, insomma, non è arrivata, e chissà quando arriverà nel presidio democratico più importante dell’Isola.
Abbiamo trovato la causa? Manco per idea, lo scandaglio non ha pescato il fondo, ed è possibile che non lo trovi, perché forse opera nell’abisso, davanti al quale si perde il lume della ragione e si può arrivare a irrazionali moti dell’anima, considerazioni blasfeme, ma pertinenti, secondo cui la democrazia è il regime che regala un ruolo alle canaglie e agli ignoranti.
Questa espulsione del secreto bronchiale è suscitata dal grumo di veleno provocato dalle “cose torte”. Si appalesò per la prima volta 2600 anni or sono, quando Atene istituì la democrazia, mantenendo la schiavitù e cancellando la presenza femminile, come soggetto di diritto. Un mascalzone o un ignorante che legifera e assolve malamente il suo mandato facendosi i c…zi suoi, non commette solo un peccato contro Dio, né un reato penalmente perseguibile, infligge la lancia nel costato di ogni uomo che rappresenta, come avvenne a Cristo in croce.
Dio mi perdoni, sto elaborando una materia che è il pane ed il companatico dei populisti e dei demagoghi; a parziale giustificazione, preciso di servirmene al solo scopo di alzare il livello della questione, suscitare sensibilità archiviate, per uscire dal tunnel di Gela provincia e bacino montano, in cui si è entrati con l’invocazione ormai mitica dei gelesi a Benito Mussolini, in visita a Gela (Duce, niente vogliamo: Gela provincia e bacino montano). Non è il caso di crocifiggersi comunque, ogni mito è il lascito di un comparaggio a perdere fra la pancia e la mente, nel quale è la mente ad essere soggiogata. E chi è senza peccato…
I francesi che ebbero per il generale De Gaulle una giustificata stima, posero, attraverso i collaboratori più vicini al Generale, alcune domande, che potremmo fare nostre. Come togliere di mezzo gli stupidi, mon generale? Al che, De Gaulle rispose, alzando gli occhi al cielo: “Programme vaste, mon amis”. In un altro contesto gli venne rivolto un quesito pertinente al primo: “Mon generale, mort aux cons”. Dove sono e chi sono gli stupidi ed i “cons”?
Nei seggi elettorali, proprio lì. Persone di vivida intelligenza e di grande saggezza, capaci amministratori dei propri beni, educatori attenti e tenaci, entrando nella cabina elettorale, dimenticano tutto ciò che ogni giorno è stato oggetto della loro riprovazione; davanti ai loro occhi cala una nebbiolina frizzante che li seduce al punto da guidare la matita verso presunti approdi sicuri, dove promesse e premesse convivono, grazie agli scappellamenti, la consanguinità, la frequentazione.
Rimettiamo i piedi a terra, dopo questa cura da cavallo, contro la malapolitica. Le province tornano, dopo essere state commissariate per circa dieci anni, sostituite dal nulla. Il Presidente della Regione, Renato Schifani, annunciando la decisione epocale del governo regionale, spiega che la riforma non ha funzionato, i costi non sono diminuiti, ed i servizi non hanno funzionato (scuole, strade).
Schifani addebita ai consorzi di comuni, che l’Assemblea regionale non ha mai costituito, la colpa delle malefatte dei suoi predecessori. E quali sarebbero queste malefatte? Non certo, a suo avviso, di avere impedito sistematicamente l’accoglimento di uno dei postulati essenziali dell’autonomia speciale, la nascita dei consorzi di comuni, altrimenti non avrebbe deciso la controriforma. Il Parlamento regionale è stato il più tenace e coerente nemico dell’autonomia speciale.
I Consorzi sono previsti dallo Statuto Speciale, come un modello di sburocratizzazione degli enti intermedi ed un nuovo assetto rispettoso dei grandi cambiamenti che i territori hanno subito negli ultimi settanta anni. Gela ha vissuto il tradimento dell’Assemblea e il grande inganno dei Consorzi sulla propria pelle: l’esito di un referendum a favore della dismissione di Gela dal Consorzio nisseno, previsto da una legge regionale, è stato disatteso con una tracotanza intollerabile dall’istituzione che l’ha proposta ed approvata.
Fra le motivazioni del ritorno all’antico – non si cambia una virgola sugli assetti territoriali – il cattivo funzionamento delle province commissariate e “la tutela del territorio e gli spazi di democrazia diretta e di espressione politica”. Cioè si torna ad eleggere consiglieri provinciali, assessori presidenti, con la coda di battistrada, consulenti, passacarte, portaborse ecc., dopo avere lasciato a secco le casse provinciali.
Schifani rassicura però: i costi saranno lievi, appena dieci milioni di euro, ciò che serve per mandare i siciliani alle urne. Il resto non viene calcolato, opportunamente. Un migliaio di siciliani, orfani di incarichi provinciali, disarcionati dalla riduzione degli spazi di democrazia, torneranno a far parte della famiglia politicante. Non importa se, per tornare alle province instaurate dal Fascio, con Prefetture, Questure e tutto il resto; non importa se sia stato necessario mettere in crisi l’intera burocrazia provinciale, privando perfino i dipendenti dello stipendio.
La “controriforma” potrà essere attuata dopo che il governo nazionale sostituirà la legge Delrio, che aveva cancellato l’elezione diretta, lasciando gli enti intermedi in piedi e funzionanti, a differenza che in Sicilia. L’attesa crea aspettative, naturalmente, ma non sarà sprecata: si comincia a trattare su candidature, incarichi e uffici di gabinetto. Su Gela-provincia? Ci hanno messo una pietra sopra.
Il funerale di Gela provincia non è mai stato celebrato; Gela riesce ad essere corriva, ma non al punto da farsi del male. Non ama le esequie, sono la presa d’atto di una sconfitta. Non ha celebrato il funerale alla fabbrica dismessa, perché l’Eni, con una delle sue mille sigle, non ha mai dichiarato la morte presunta, caricandosi l’onere della morte vegetale avviando la green economy. In un contesto lugubre, nel quale a piangere sono solo coloro che ci hanno rimesso la salute, ha trovato finora spazio una espettorazione dello spirito angustiato, la questione di Gela provincia, ridotta a tangibile esempio di malademocrazia infiocchettata da credenziali seduttive.