Avendo assunto l’impegno di occuparmi del Festival di Sanremo dopo la prima giornata della kermesse (musicale, ma non troppo…), ho creduto mio imprescindibile dovere prendere diligentemente nota degli accadimenti nella seconda serata, sorbendomi le cinque ore curriculari, con alcune pause, essenziali come l’ora d’aria concessa ai detenuti.
Spero di non essermi perso le performances di maggiore successo durante le pause.
Nella prima serata ho ascoltato, in tema di canzonette, i Cugini di campagna ed ho subito decretato il loro successo per una questione affettiva (verso me stesso), sbagliando: mi ricordano il passaggio più controverso della mia vita, quello che mi ha trasferito dalla gioventù all’età post-adulta, oggi, ahimè, da tempo abbandonata, seppure senza colpa.
... La prima serata si è svolta a poche ore di distanza dall’apocalittico sisma che ha distrutto il sud della Turchia e una larga fetta del territorio siriano. Diciassette mila morti, scene strazianti, l’inferno in diretta nei telegiornali: 28 milioni di uomini donne e bambini sotto terra o scampati per miracolo alla violenza tellurica. Sanremo non ha potuto catturarmi, solo rare irruzioni, con l’eccezione di Roberto Benigni, sul quale mi sono soffermato, senza sentirmi un verme. Per questo eterno ragazzo stravedo, non c’è che fare.
A chi ha cambiato canale, lasciando l’Apocalisse al suo destino, è toccato di trasferirsi in Ucraina, dove i russi bombardano città e villaggi senza tregue, il territorio che vogliono annettersi, denunciando al mondo intero oltre che l’infamia di un’aggressione che ci riporta indietro di quasi un secolo, anche la demenziale volontà di prendersi un cimitero grande quanto il doppio del nostro Paese, sepolto dalle rovine provocate da missili e droni, e con esso gli uomini e donne sopravvissuti, se ce ne saranno, con il cuore gonfio del desiderio di vendetta, straziato dai lutti. Se vincessero, i russi non troverebbero niente, passeggerebbero in un deserto di anime morte, vedrebbero le sequenze di certi film che raccontano il day after di una guerra nucleare.
Un clic, quanto basta, una rapida dissolvenza ci trasferisce dalla terribilità del cataclisma con le vittime, alle luci multicolori dell’Ariston, le prime file incipriate, gli orchestrali attenti, conduttori smaliziati e cavea plaudente. Un altro mondo, al quale corriamo il rischio di abituarci, come fosse normale quel che accade.
Il Festival di Sanremo non si è sentito affatto accerchiato dal ruggito crudele della natura, né dalla follia dei belligeranti nel paese martoriato dalla guerra più vicina, in Ucraina. E’ rimasto imperturbabile, quasi che fossero stati alzati cavalli di frisia attorno all’Ariston. Eppure tutto avveniva in prossimità dei Cugini di Campagna, Rosa Chemical, gli storici moschettieri della canzone italiana “per la prima volta insieme”- Albano, Ranieri e Morandi.
Una prossimità che i mezzi di informazione e le tecnologie ci offrono a piene mani, senza lasciare scampo alle nostre giustificazioni, del tipo “lo show deve andare avanti”. Un clic e assistere, in tempo reale, al salvataggio di un neonato estratto dalla montana di detriti, ancora miracolosamente vivo. O ascoltare le parole di un pover’uomo annichilito dal dolore, in attesa che qualcuno lo aiuti a scavare e trarre in salvo i propri cari. O una piccola folla di uomini su cui si abbatte un maestoso palazzone, che collassa a causa dell’ennesima scossa tellurica.
Ancora un clic e le telecamere ti riportano al centro del cataclisma, stavolta in Siria, dove i ribelli contendono al governo di Damasco ogni striscia di terra e milioni di poveri disgraziati fra bombe e kalaskinov da dodici anni si svegliano ringraziando il loro Dio di essere stati risparmiati ancora una volta…
Basta, credo di avervi trasmesso il senso di colpa provato ogni volta che cliccavo sul telecomando per tornare a Sanremo. Senso di colpa che mi ha incattivito e fatto nascere, e crescere a dismisura, una crisi di rigetto verso le canzonette e tutto ciò che Sanremo rappresenta; reazione della quale non meno vanto, è un modo come salvarsi l’anima (ma meno male che ancora c’è…).
La metafora del Titanic, tirata in ballo fino alla nausea, stavolta rappresenta una realtà dura e viva, al di là di ogni immaginazione. Capisco da solo che prendersela con le canzonette è profondamente ingiusto, anche perché in cinque ore di festival, il tempo dedicato ai cantanti in gara non supera i quarantacinque minuti.
So bene che le canzoni e i fiori sono compagni gentili della nostra esistenza (e meno male che ci sono) e non meritano un giudizio impietoso che li coinvolge senza colpa, ma la concomitanza è insopportabile: accettandola ci fa diventare dei mostri, ignorare l’apocalisse in presa diretta dei canali televisivi, le radio e i giornali.
I fiori e la musica non dovrebbero mai riempire di tristezza, ed essere oggetto di rammarico e riprovazione; i conflitti in corso nel mondo sono ben 169 (la fonte è l’Avvenire), l’Ucraina non è il solo teatro di guerra: si muore ovunque, ed a morire sono sempre i più sventurati. Nulla di nuovo, ma la dimensione del cataclisma è paurosa, non ci permette di omologarla con altri eventi, pur terribili. In più, possiamo assistere all’inferno.
Leggo i quotidiani del mattino, a due giorni dal terremoto, nelle prime pagine Festival e terremoto hanno lo stesso spazio, e coloro che il ghetto dorato di Sanremo è stato salvaguardato con tutti gli onori, e chi non l’ha fatto, aveva ragioni ben diverse che la concomitanza del terremoto. Il Festival non è piaciuto a coloro che, come Matteo Salvini, non l’hanno mai amato.
Salvini ha elaborato il solito quaderno di lamentele, elencando ciò che non avrebbe dovuto contenere: quest’anno Zelensky, Mattarella, Benigni, la pallavolista Paola Egonu, italiana di colore; lo scorso, il lauro della vittoria a Mahmood, che è mezzo-egiziano, e le canzoni sugli immigrati ecc. Voleva che l’idioma del nord fosse meglio rappresentato, che Elton John fosse invitato a patto che non si occupasse dei gay e dei diritti civili. La deputata di Fdi, Maddalena Morgante, si è lamentata che Sanremo si sia trasformato in una sfilata gender fluid.
Un altro fratello d’Italia, Alfredo Antoniozzi, ha posto una questione di principio: meglio Sabino Cassese, che Roberto Benigni. E Maurizio Gasparri ha sollecitato l’attenzione sul compenso attribuito al Premio Oscar, prevedendo che sarebbe stato inevitabilmente alto. Blanco sbraca per un guasto all’auricolare, e distrugge le composizioni floreali del palco senza suscitare alcun commento.
In definitiva il chiostro sanremese dovrebbe adottare misure più stringenti, semmai, alfine di impedire invasioni, altro che partecipare alle vicende del mondo, Giusto come accade in mare. Felici e contenti, insomma, se le canzonette e ciò che ci sta attorno, lasciano fuori materie che sono prerogativa della politica politicante.
Il Festival che convive con l’Apocalisse è insopportabile, il lockdown politichese lo è ancora di più: fa arrossire di vergogna per l’assoluta assenza di compassione. Non è razzismo, è peggio. E’ la difesa del giardino di casa: due metri per due, viottolo d’accesso compreso.
Quanto al Festival, non mi sottraggo al dovere di cronaca. So di scontentare molti lettori, ancor di più, ma non posso spogliarmi di punto in bianco, del mio tempo. Morandi, Albano e Ranieri mi hanno fatto tornare ragazzo. Apprezzo quelle melodie di un tempo, non posso farci niente. Trovo l’omaggio a Umberto Bindi, con Concerto, una scelta felice. Bindi è stato ingiustamente dimenticato. E una ragione c’è: era un diverso, allora insopportabile.
Da “Grazie dei fiori” di Nilla Pizzi ai Maneskin è passato di tutto, i cantautori contemporanei a Bindi sono rimasti nel mio cuore. Delle canzoni in gara segnalo Giorgia con Le cose dette male Mengoni con Due vite. Rosa Chemical e Madame? Non pervenuti, meglio tacere. La platea dell’Ariston avrebbe dovuto urlare “voce”, come si faceva al cinema quando veniva mancare il sonoro. Sui testi delle canzoni non mi pronuncio, desidero fare successivamente un’analisi accurata dei contenuti e delle amenità.
Amadeus e Morandi? Due simpaticoni, soprattutto il secondo, che ha impugnato la scopa per mettere ordine sul palco dopo l’infestazione di Blanco; Amadeus, forte degli ascolti, ha risposto con rara audacia alle critiche salviniane, suggerendo al vice presidente del consiglio di azionare il telecomando e vedere altro, in nome della libertà. La coppia Ferragni-Fedez, per finire. La signora ha dedicato a se stessa una lettera, dandosi una pacca sulla spalla, e come abbia fatto non lo so, non è un gesto facile da compiere: scritto tutto di suo pugno, ha tenuto a precisare.
E si capiva, sia per via della monotonalità che per i contenuti freschi di giornata. L’abito che disegna la nudità e mette a tacere sul nascere lo scandalo è una trovata degna di una influencer di qualità, ma lascia le cose come stanno. Non trovo alcuna differenza fra far mostra del proprio corpo e la sua riproduzione, sic et simpliciter. Forse, come si dice, attizza di più…E non mi riguarda. Ho, anzi avevo, altri gusti. Fedez, finedicitore sulla Costa Smeralda, ha strappato in diretta la foto in divisa nazista di un sottosegretario del governo in carica. Che dirvi, non mi dispiace affatto anzi, apre il cuore alla speranza. Quale? Che si possa ancora gettare nel cestino chi osa giocare con la storia più nera dell’umanità, segnata dalla Shoa.
Chiudo, senza averlo previsto, così come avevo cominciato, con l’Apocalisse. Sui libri di storia non si leggerà la cronaca controversa del Festival di Sanremo, ma la cronaca dell’Apocalisse in Medio Oriente. Magari qualcuno, a piè di pagina, ricorderà che mentre le vittime agonizzavano, morivano, e si seppellivano i morti in Italia si aveva testa e cuore per canzoni e fiori.
Come ci manca Domenico Modugno! Ci avrebbe fatto volare altrove, per una settimana, non di più.