Le categorie politiche che fecero vibrare il cuore degli italiani hanno un ruolo marginale.
Sovranismo, populismo e civismo hanno guadagnato il centro della scena; su queste entità, indistinte ma ancora cariche di responsabilità e piene di significato, si svolge il dibattito politico nel Paese. Destra, centro e sinistra ci sono ancora, ma è come se fossero usate come il vestito buono da indossare nelle grandi occasioni; quando vengono evocate si ha la percezione di qualcosa di inattendibile, di illusorio, quasi che si voglia scantonare dalle questioni essenziali. Si è spezzato da tempo il vincolo, la reciproca fedeltà, fra lo schieramento e i valori e le tensioni che esso protegge e garantisce.
Chi crede che le tre tradizionali aree politiche non esistano più e siano mantenuti da ragioni di bottega, e chi invece reclama a gran voce la loro presenza, perché “non siamo tutti gli stessi e c’è chi sta dalla parte dei fortunati e i deboli, gli ultimi”, hanno in comune lo scetticismo. La premessa per entrambi è che vivano in uno stato vegetativo, aiutate da marchingegni senza anima né mente. Chissà che cosa come giudicherebbero la politica attuale i grandi filosofi della Grecia antica, che temevano i pericoli di una democrazia anarchica e di una monarchia dispotica.
La coniugazione del principio dell’uguaglianza è diventata roba da alchimisti, piuttosto che di uomini politici, forse per la semplice ragione che i personaggi che la invocano come il segno della civiltà, si servono delle ampolle e delle misture per i maquillage indispensabili alla permanenza del principio.
Provate a spiegare – a voi stessi – la diversità fra le aree politiche ed i singoli schieramenti all’interno di esse. Vi rendereste conto che non è possibile. E’ davvero difficile individuare un partito da un altro attraverso le sue istanze politiche, valoriali, gli obiettivi, le ragioni stesse della sua esistenza. Guardare indietro è impresa improba, troviamo le diligenze che viaggiano verso le stazioni di posta, mentre oggi parliamo e scriviamo con la stessa tempistica. Dobbiamo corrispondere immediatamente al nostro interlocutore, per posta elettronica, e non abbiamo il tempo per pensare. Un altro mondo.
L’esprit del nostro tempo ha trovato strade più aderenti alla realtà, profondamente mutata rispetto alla temperie del dopoguerra, quando si combatteva nelle piazze, lancia in resta, all’insegna dei valori cristiani, del socialismo, del comunismo, del liberalismo, nel solco delle grandi passioni dell’ottocento. Ne è passata di acqua sotto i ponti, eccome. La nostalgia è un sentimento che accarezza i pensieri, ma non risolve i problemi. Accelera l’invecchiamento, indurisce le arterie, incattivisce. Guardare al presente con indulgenza? Forse anche questo atteggiamento è sbagliato, si ottiene l’equivalente dell’effetto placebo.
Le comunità politiche, anche quando mantengono il vessillo, il titolo, e qualche indizio utile a individuarne la ragion d’essere, sembrano spaesate e nude. L’appartenenza ad una comunità politica, in periferia, è dettata da tradizioni familiari, motivazioni contingenti, relazioni professionali, interessi economici, ambizioni carrieristiche, divenute un collante molto concreto. Le correnti, tanto malfamate, c he hanno dettato legge nei partiti della prima repubblica, sono confraternite di suorine e monaci votati al bene del prossimo, rispetto alle lobby che si riconoscono attraverso il nome e cognome del capo.
Ebbene, questa deriva o, chiamatela pure presa d’atto della realtà, trova Gela in prima linea. E’ una delle comunità che interpreta il nostro tempo con tempestività e destrezza. Ho letto con il sorriso sulle labbra una parodia della geografia politica dell’Assemblea regionale siciliana, aggiornata alle recenti regionali, che riferisco perché ha a che fare con Gela. Al cronista che chiede di essere autorizzato a entrare a Palazzo dei Normanni, sede dell’Ars, per recarsi presso il gruppo parlamentare di Forza Italia, gli viene risposto: quale Forza Italia? Ce ne sono due, quella che si riconosce nel capogruppo, Stefano Pellegrino, e l’altra, frondista, che fa capo a Gianfranco Micciché. Che cosa divide le due anime forziste? Non c’è risposta, o meglio ci sarebbe, ma è di alcuna rilevanza averne conoscenza.
La storiella dell’Ars dedicata a FI, cade a fagiolo per osservare Gela, laboratorio del conformismo. Gli amici di Renato Schifani e gli amici di Gianfranco Miccichè si fronteggiano anche Gela con alterne fortune. Gela è una delle piazze in cui il fronte è caldo. Il sindaco, Lucio Greco, intrattiene un rapporto privilegiato con il Presidente della Regione, Renato Schifani, il deputato regionale Mancuso frequenta l’ex presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché, e quindi sta dall’altra parte della barricata.
Separati in casa a Palermo, separati in casa a Gela. Il sindaco è nel mirino della fazione avversa. La buona, o la cattiva amministrazione non c’entrano niente, altrimenti si sarebbe assistito ad un confronto sulle cose da fare, sulle priorità, gli interventi da deliberare. Il deserto. Ricordo un messaggio del sindaco al popolo, all’indomani delle elezioni, con il quale il primo cittadino chiede una firma in calce a un documento di buone intenzioni. Una iniziativa così bizzarra da far arrossire i brutti ceffi delle vuccirie. Populismo esangue e malriposto.
In consiglio comunale Greco può contare dal momento su undici consiglieri su ventiquattro. Ci sarebbero i voti per una mozione di sfiducia. Con quali addebiti, motivazioni, omissioni? Tre consigliere, elette in liste civiche, le tre “d”, hanno chiesto le dimissioni del sindaco, spiegando che la mozione di sfiducia costituirebbe un regalo a chi cospira contro il sindaco, e loro non vogliono regalargli niente. Siccome è assai difficile che Lucio Greco le accontenti, le tre consigliere di fatto garantiscono il proseguimento naturale della legislatura. Censire l’attività politica delle istituzioni amministrative gelesi non sarebbe un modo intelligente di occupare il tempo.
Gela è una delle poche città in cui alle amministrative i partiti, con qualche eccezione, hanno fatto un passo indietro. Largo al civismo: i comuni non hanno bisogno di bandiere, ma di fatti. Il civismo non ha cambiato le cose. E alle recenti elezioni politiche e regionali, è stato messo in pausa, e sono ricomparsi i partiti. Che non esistono, o quasi, nei fatti. Sono sigle e aggregazioni di comunità sparpagliate, che hanno in comune ben poco.
I partiti sono serviti per scippare a Gela la sua rappresentanza parlamentare, decisa ad Arcore. Come possono tornare i partiti se non esistono? Per rispondere mi servo di Italo Calvino, che in una sua fiaba, Il cavaliere in esistente, ci aiuta a capire.
Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia, Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Giunto difronte ad un cavaliere dall’armatura bianca e l’elmo chiuso, chiede chi sia. Il Cavaliere dice di chiamarsi Agilulfo. Carlomagno domanda perché che non mostri la sua faccia, tenendo l’elmo abbassato. “Perché io non esisto”, risponde prontamente Agilulfo. “E come fate a prestare servizio se non ci siete?” ribatte, basito, il re. “Con la forza di volontà”, spiega Agilulfo, “e la fede nella nostra santa causa!”
Le cose stanno così, più o meno, a Gela. Ci si può permettere di non esistere se si può contare sulla volontà e sulla fede nella causa. I partiti possono fuggire da se stessi, perché non esistono; altro che volontà e fede. La rinuncia ad esserci è barattata con il civismo, che può perfino essere una cosa seria, se è confortato da buona volontà e fede nella santa causa, come Agilulfo, senza essere appesantita dai lacci e lacciuoli del partitismo.
Ma nel nostro caso, è soltanto una scelta strumentale, un espediente per privilegiare le relazioni personali e nascondersi, evitando brutte figure alle urne. Ammainando le bandiere dei partiti, senza le qualità di Agilulfo, si scivola nel personalismo (un altro “ismo” in auge), e si sugella una rinuncia che prelude alla “irresponsabilità” politica. Un passo indietro per la democrazia. Gli elettori hanno il diritto di sapere per che cosa votano oltre che per chi votano. Alle elezioni politiche la legge elettorale li ha spogliati di uno dei loro diritti, scegliere chi deve rappresentarli. Alle amministrative vengono spogliati del “che cosa votano”, il senso politico della loro scelta.
L’ammainabandiera, insomma, non serve a niente. Il pragmatismo esasperato non permette di conseguire risultati nemmeno ai suoi più radicali sostenitori. Gianfranco Micciché alza uno sbarramento contro Nello Musumeci, perché non sia il candidato del centrodestra. Musumeci viene nominato Ministro (senza portafoglio). Miccichè perde la prima poltrona di Palazzo dei Normanni e rimane fuori dal governo. Il sindaco di Gela, Lucio Greco, si spende per Forza Italia alle recenti regionali, e perde una serena conclusione della sindacatura.
Stare con l’elmo abbassato non basta. Agilulfo docet.