Nell’annunciare il successo dei sindaci democratici al turno di ballottaggio nelle città capoluogo, Enrico Letta si è compiaciuto per la buona prova delle candidate sindache, sulle quali, ha ricordato una antica preferenza.
C’è da credergli: divenuto segretario del Pd, dopo avere lasciato la scuola parigina nella quale ha ritrovato motivazioni dopo lo “scippo” di Matteo Renzi (“stai sereno”), ha subito affrontato la sua prima battaglia campale, pretendendo che nelle due Camere alla testa dei gruppi parlamentari venissero elette due donne. Non era solo un “ukase” utile a mostrare i muscoli ed a verificare le volontà della nomenclatura democratica, che l’ha riportato in Italia, ma il bisogno di rivolgere uno sguardo al mondo femminile, “mortificato” dalla scelta dei ministri democratici nel secondo governo Conte. Il Pd, ha osservato in una delle prime interviste da segretario (a La Repubblica), l’ho trovato così come l’avevo lasciato (“Sono seduto sulla poltrona ortopedica che usava Andreatta per il suo mal di schiena”).
Per uscire dall’immobilismo Letta ha voluto la “prova finestra”: le parlamentari “suggerite” da lui, dopo un breve mal di pancia, sono arrivate al vertice. «Io nel Pd voglio creare le condizioni per una parità vera, che passa dalle aborrite quote rosa perché non c’è altro modo per mettere in condizione le donne di occupare posti che consentano loro di fare esperienza e acquisire capacità di guida».
Letta non nasconde che il problema è culturale e politico, va ben al di là della rigidità delle nomenclature dei partiti. “Come presidente dell’istituto Jacques Delors, invitato dall’assemblea dei vescovi francesi, ho trascorso due giorni con altri 120 uomini, per lo più anziani. Discorsi interessanti, per carità. Ma l’assenza di donne rendeva tutto così stridente. Lì ho capito che anche per la Chiesa è arrivato il momento di aprirsi e valorizzare le donne, fino a pensare al sacerdozio femminile».
La ventata di rinnovamento pretesa dal segretario non pare che abbia risvegliato le coscienze nelle periferie, quelle importanti – regionali – e le altre, locali, con alcune eccezioni meritevoli addebitabili a sindaci illuminati. Lo stato dell’arte non segnala infatti uno sfondamento della Linea Maginot da tempo costruita (e irrobustita nel tempo) dagli apparati. Gela non è certo una eccezione di una modesta presenza femminile, ma rappresenta la cartina di tornasole della politica al maschile, che crede di potere fare a meno delle risorse di genere femminile, nonostante nel mondo delle professioni e dell’imprenditoria le donne a Gela abbiano ottenuto successi ed apprezzamenti.
Ricordo a chi non ha avuto modo di leggermi nelle edizioni precedenti del Corriere (di Gela), di avere posto l’accento sulla antica assenza di sindache dal giorno in cui è stato consentito alle donne di votare, e di candidature femminili alla carica di primo cittadino. Il silenzio con il quale è stato accolto il tema da me posto sul tappeto – un cambio di genere al vertice – è più eloquente di un dotto dibattito, è una risposta che non si presta ad equivoci, e che, al di là di ogni disquisizione di merito, fotografa il ritardo politico-culturale della città.
Sarebbe un errore, comunque, credere che si tratti di un pregiudizio verso il mondo femminile. Non posso escluderlo del tutto, ma ritengo che il pregiudizio rappresenti un elemento non essenziale della questione. Prendo atto che il tema non interessa la curia politica locale, rebus sic stantibus, ma non faccio alcun passo indietro. L’analisi va fatta in fondo, anche in presenza di un assordante silenzio. I partiti sono dei simulacri portati in processione nelle feste comandate dalle fratellanze che raccolgono l’obolo per le luminarie e concedono uno sguardo di preghiera ai fedeli. Le fratellanze sono gelose, si inginocchiano quando c’è da inginocchiarsi, si confessano con le persone giuste, impongono le loro regole, e, soprattutto, non permettono di toccare il simulacro, dove esso è stato deposto, nella casa comunale.
Ma c’è il rovescio della medaglia. Una volta elevato sull’altare e mostrato ai devoti, il simulacro parla, agisce, fa di testa sua e pianifica il futuro, nella convinzione che il servizio per la comunità debba essere ripagato e che, quindi, possa legittimamente pretendere di rimanere dov’è. Va bene che è dura stando assiso su un trono di spade, ma la seggiola di prestigio (ed altro) regala soddisfazioni, alla faccia di chi gli vuole male. Una donna sindaco è perciò un pericolo di sommovimenti incontrollabili, al pari di un sindaco al maschile, che non s’è guadagnato i galloni sputando sangue per arrivare al vertice.
Chi sta fuori e fa parte di una fratellanza, dopo un cursus honorum prestigioso e ricco di soddisfazioni, non si sente fuori del tutto, mantiene in piedi l’esercito di clientes che ha arruolato nel tempo. Insomma non molla: la fratellanza si abbandona solo sul letto di morte, dopo avere ricevuto l’estrema unzione. Vecchia storia, sempre attuale.
Nel saggio La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia, scritto nel 1909, Roberto Michels avverte: «Così si realizza il paradosso di un movimento politico che propugna l’eguaglianza democratica e che, invece, nella sua organizzazione conosce un duro controllo esercitato da una cerchia oligarchica che si rigenera solo con il metodo della cooptazione. L’oligarchia mette davanti al fatto compiuto gli associati, le decisioni assunte dalla ristretta cerchia dei capi diventano decisioni di tutti, senza alcun processo democratico, anche se la democrazia viene sbandierata come fondamento della comunità politica.
In definitiva, ciò che voglio dire è che la difficoltà, palese, a guardare all’altra faccia della luna, nasce dalla chiusura ermetica delle curie politiche, che regolano l’attività delle fratellanze, e non dal disconoscimento della qualità di una donna impegnata nel mondo del lavoro, delle professioni e dell’imprenditoria.
Ciò detto, non me la sento di assolvere il silenzio delle donne di Gela, alle quali guardo con rispetto e con speranza, perché facciano sapere di esserci, prima o poi. Capisco il loro pudore, intervenire in una fase di discussione può rivelare una ambizione, e provocare delusione, imbarazzo e anche cattiverie, ma se non si investe – in professionalità, spirito di servizio, testimonianza – uscendo dal campo, pur generoso, dell’associazionismo, volontariato o professioni, le cose resteranno come sono per i secoli a venire.