La piccola storia di un piccolo paese, e Gela lo era nell’immediato dopoguerra, può offrire talvolta una visione della realtà, semplice e genuina, magari lontana dalle analisi dotte ma capace di sorprenderci, offrendoci un mondo che ignoriamo.
Se ci venisse chiesto che cosa sia la sinistra, quali valori, ideali, principi, obiettivi suggellano la sua diversità, avremmo difficoltà a tracciare il perimetro entro il quale collocarla. Posta a tanti la stessa domanda, constateremmo che ognuno ha una percezione diversa. In Francia il signor Mèlanchon, sbucato dal nulla, ha messo insieme i cespugli della sinistra tradizionale e di una protesta di cui si sa poco o niente causa dei suoi marcati accenti populisti. Eppure lo schieramento del signor Mèlanchon sfiora i successi del socialismo mitterandiano le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Oggi le frustrazioni, le nostalgie, le insoddisfazioni del popolo di sinistra sono i sentimenti che prevalgono al punto da costituire l’amalgama della sinistra, o del suo simulacro. Il resto è noia, direbbe … Il racconto della nascita della sinistra unita a Gela, può illuminarci, e strapparci perfino un sorriso.
Il Pci è nato, come ognun sa, a Livorno nel ’22 da una scissione nel Psi, ma ha cominciato la sua avventura politica nell’Italia repubblicana. IL ventennio fascista aveva rimosso l’amarezza e la conflittualità provocate dalla scissione, e si avvertiva l’esigenza, da parte di una nuova generazione di militanti, piuttosto, di riprendere il lavoro forzatamente abbandonato. Le privazioni della libertà furono il propellente di un entusiastico ritorno alla vita politica. Abbandonati i sentimenti di rivalsa, ed immersi in un clima di ricostruzione, prevalgono i vecchi legami e, forse, anche la speranza che di un ritorno all’unità.
Il Psi di Gela, negli anni quaranta, fu il più lesto ad organizzarsi ed aprire una sezione, ubicata alle spalle della Matrice, che divenne uno dei pochi luoghi di discussione politica di Gela. Fra coloro che rifondarono il socialismo gelese c’era Francesco “Ciccio” Città (nella foto), detto Ciccineddru, barbiere di fine ingegno. E’ lui che mi ha raccontato ciò che sto per riferirvi. I comunisti erano un po' smarriti, Palmiro Togliatti era appena sbarcato a Salerno e non erano ancora stati disegnati dai “geometri” di Yalta i confini del nuovo mondo, diviso fra area delle democrazie occidentali e il comunismo sovietico.
I socialisti – racconta Ciccineddru Città – aprirono la loro sezione ai “compagni” comunisti, come si fa con i vicini di casa che non hanno più un tetto. «Eravamo la stessa cosa – mi ha detto Città –. Perché non ospitarli quel tanto che basta perché si organizzassero, magari restano con noi…». Chiesi se non gli fosse passato per la testa di stare organizzando i futuri avversari politici, Città rispose che a questo non pensava nessuno, «ci piaceva ritrovarci tutti insieme e riprendere la lotta politica». La parola d’ordine del Pci, dopo il Patto di Yalta, era di partecipare alla vita politica democratica del Paese, senza esasperare le divisioni, ma restando ognuno con la propria etichetta e la propria storia. Sapeva che gli era inibito il governo del Paese, e che bisognava fare di necessità virtù, cercando legami e alleanze che impedissero un isolamento politico alla lunga dannoso. La rivoluzione socialista non entrò nell’agenda di Palmiro Togliatti, ma guadagnava il primo proposto in quella delle forze politiche repubblicane italiane.
Il Pci fece parte del primo governo di unità nazionale, fino a quando, di ritorno dagli Stati Uniti, Alcide De Gasperi, tornato a casa, abiurò all’unità e si affidò alla sua Dc ed ai partiti satelliti del centro. Socialisti e comunisti fuori. In breve il Pci e poté contare su ingenti risorse e su volontà e uomini dell’apparato che lo fecero crescere nel giro di pochi anni. Alle prime elezioni amministrative del dopoguerra, i socialisti ebbero più consensi, dopo di allora furono fagocitati dall’armata rossa, che si muoveva come un esercito in campo di battaglia. Nelle liste unite, tanto per dirne una, i comunisti votavano disciplinatamente, come un sol uomo, mentre i socialisti disperdevano il voto fra più candidati con il risultato che erano i comunisti a centrare l’elezione.
Ciccineddru Città forse non si aspettava questo epilogo, né se ne fece un cruccio, non recriminò e mantenne le relazioni con i compagni ormai avversari politici (ma non troppo). A lui piaceva discorrere di politica, affrontare le questioni del giorno. E lo faceva ogni giorno nel suo salone da barba, diventato un simposio permanente. «Parlavamo di tutto, di Yalta, la bomba atomica, i padroni e le terre da dare ai contadini, l’indipendentismo, Stalin. I compagni comunisti crescevano e a noi la cosa non dispiaceva affatto».
Penso che questa aura di bonomia e sentimento di fratellanza fosse sincero. I comunisti avevano dirigenti stipendiati, i socialisti, nelle periferie, si organizzavano come potevano. Gli aiuti da Mosca arrivavano con il contagocce al Psi, la fetta più importante spettava al partito fratello, il Pci. E la resistenza aveva lasciato una eredità di immobili che poterono essere messi a reddito molto presto.
Ciccineddru si teneva informato, comprava due giornali, l’Avanti e il Giornale di Sicilia, e spiegava ai compagni, fra una barba e l’altra, come andavano le cose nel mondo. “Forse i compagni comunisti discorrevano di cose che ci riguardavano più da vicino…”, ammetteva. Uno degli argomenti era inevitabilmente la sorte dell’indipendentismo siciliano, al quale Ciccineddru Città aveva creduto quando era un giovanotto di belle speranze.
Quando arrivò la ventata separatista, si era armato di fucile e era partito per Piano Battaglia, dove era stato convocato il raduno dell’esercito indipendentista. A Piano Battaglia i separatismi si prepararono ad affrontare l’esercito italiano, carabinieri e militi rabberciati qua e là. Per fortuna, fu evitata la battaglia sul campo e passò il timore di una sanguinosa guerra civile, perché dagli Stati Uniti non venne alcun nulla osta. Gli inglesi, dal canto loro, si erano intestati l’obiettivo di non lasciare fuori, a Palermo o Roma, la Monarchia, e facevano il doppio gioco con gli indipendentisti, che così si trovarono soli e senza sostegno.
Al momento giusto, dopo una trattativa laboriosa, fu evitato lo scontro contro l’esercito italiano e Ciccineddru se ne tornò a casa con il fucile senza sparare un solo colpo. E di questo, almeno con me, non si dolse mai, raccontando la sua surreale avventura, che sembra tutta inventata, ma non lo era affatto, perché si arrivò davvero alla soglia di una guerra civile che sarebbe stata molto dolorosa. Socialista e separatista: le due cose potevano stare insieme? Certo che potevano, mi ha spiegava Ciccineddru Città. «Erano tanti i socialisti a Piano battaglia». E i comunisti? «C’era qualcuno… ma anche loro avevano chi tirava le fila». E i mafiosi? «C’erano anche quelli, ma allora che ne sapevamo noi?, non l’avevano scritto sulla fronte».
Quando Ciccineddru parlava per me era oro colato. Lo ascoltavo in religioso silenzio, tanto che talvolta mi sorrideva per questo atteggiamento serioso. Non si prendeva sul serio, era uno con la testa sulle spalle. In più la sapeva lunga grazie ad una sapienza esperienziale, diventata talento e buon senso. A lui devo molto. La militanza socialista per i “borghesi”, come me – figlio di commerciante – non era agevole, almeno nei primi anni. Ogni volta che qualcuno si alzava a parlare, bracciante operaio o sindacalista, cominciava con un’ammissione di ignoranza (“Non ho il coccio della lettera….”) che lasciava immaginare una professione di umiltà; invece ,man mano che andava avanti, scioglieva il rosario di recriminazioni e lamentele verso i borghesi che erano, potenzialmente traditori della classe operaia. Ciccineddru mi portava sul palmo della mano, mi dava suggerimenti, difendeva la sincerità della mia militanza, e interveniva nelle assemblee per aggiustare il tiro dei compagni, che alludevano alla mia estraneità alla causa.
Quando arrivò il centrosinistra in campo nazionale, i comunisti fecero ferro e fuoco. Finalmente la vocazione al tradimento era provata. C’era stata la stagione del “Blocco del Popolo” in Sicilia, liste Psi e Pci unite, ed il Psi ne era uscito con le ossa rotte, sicché il buon Pietro Nenni, dopo avere ricevuto il Premio Lenin, la massima onorificenza sovietica, dopo avere riflettuto a lungo, aprì le porte ad una alleanza con la Dc, spaventando gli americani, che vigilavano sulla fedeltà italiana, così esposta a causa del grande consenso comunista nelle competizioni elettorali.
Tempi opachi, spie, generali e Sty Behind. La voce di un golpe arrivò anche a Gela, prima che i giornali ne scrivessero. Paolo La Rosa, uno dei “quadri” comunisti gelesi di maggiore prestigio, con cui avevo un rapporto di amicizia, mi suggerì durante una passeggiata notturna sul Corso Vittorio Emanuele, di non dormire a casa mia, senza però spiegarmi il perché. Ne sapeva più di me. La ragione di quel consiglio la conobbi alcuni mesi dopo, leggendo i giornali.
Paolo La Rosa mi invitò anche ad una “occupazione” simbolica delle terre, siamo in tempo di riforma agraria, e vi partecipai, facendo una lunga camminata di parecchi chilometri, che partì all’alba da Piazza Umberto, dove si adunavano i iurnatari, i braccianti in cerca di occupazione per la giornata. Una esperienza indimenticabile.
Altrettanto indimenticabile fu il comizio di Girolamo Li Causi a Gela durante una campagna elettorale della quale non ricordo la data. Le parole di Li Causi, così come quelle di Ciccineddru, mi restarono in testa, grazie ad una metafora che l’oratore usò per spiegare il comportamento severo dei comunisti nei confronti del Psi. Disse che dovevamo immaginarci ad una gara con la corda, una squadra, fatta da compagni dei due schieramenti, che tira da una parte, e una seconda che porta l’acqua al suo mulino dall’altra, a prescindere dalla collocazione, maggioranza o opposizione.
Girolamo Li Causi non rimproverava alcun tradimento ai “compagni” socialisti, raccomandava soltanto di tirare la corda dalla parte giusta, che era quella nella quale si trovavano i “compagni” del Pci. L’immagine si rivelò felice e mi riconciliò con il Pci che ci metteva sul banco degli imputati per il “tradimento” della classe operaia. A quel tempo ero “traditore” due volte, all’interno per la mia origine borghese “e all’esterno per l’alleanza con la Dc.
Fin qui gli aneddoti, che sono storia. Ne aggiungo un altro che serve a capire meglio l’aria che tirava. Durante una assemblea congressuale di sezione a Riesi, il segretario del Pci, concluso il dibattito, propose il voto sulle mozioni. L’ultima mozione, però, venne segretata. Non poteva essere riferite né accennata. Fu approvata anch’essa. Mi raccontarono che riguardava i socialisti, dai quali bisognava guardarsi, e quindi trattarli come meritavano: traditori e pericolosi. I primi a mettere in riga, in caso di necessità.
Era meglio allora o oggi? Non lo so, ciò che so è che viviamo in un mondo che non ha niente a che vedere con quello che vi ho narrato attraverso alcuni aneddoti. So anche che uomini politici come il barbiere Ciccineddru Città non si trovano più nemmeno a cercarli con il lanternino.