Anacleonte da Gela: chi era costui? Nato nel 226 a.C., poeta.
Deve esserselo domandato, seppur per un breve istante, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia (nella foto), quando ha ricevuto, via mail, la poesia, tradotta dal greco antico, da un palermitano acculturato, di professione informatico, Marcello Torrisi. E’ il mese di aprile del 2020 ed è appena esplosa la “peste” del XXI secolo, e i veneti assieme ai lombardi sono in testa alla classifica delle vittime; il governatore vuole farsi sentire vicino ai suoi concittadini, perciò si fa vedere ogni giorno in TV per aggiornarli. Quando Marcello Torrisi gli invia la poesia, Luca Zaia la legge e si compiace del poeta e ignoto amico siciliano che dalla lontana Palermo ha avuto cura di alleviare le ferite provocate dalla guerra contro la pandemia, che lo hanno abituato alle brutte notizie. Non gli è parso vero, perciò, di regalare ai veneti i versi di un illuminato poeta greco.
La domanda – chi fosse Anacleonte da Gela – è apparsa una inutile pedanteria. Quei versi lo hanno catturato e la opportunità di leggerli in diretta ha rimosso, se ce n’erano, i dubbi su Anacleonte. D’altra parte, chi mai avrebbe indugiato, ricevendo il dono di versi così empatici, scritti quasi 2300 anni or sono. E poi, c’è Gela, la città d’origine del poeta di lingua greco antica, a suggello della nobiltà della poesia; è la polis che il grande Eschilo ha scelto per trascorrere gli ultimi anni di una vita, sotto alcuni aspetti, spericolata. Così ha recitato i versi, e lo ha fatto con cura, e una commovente dedizione. Si sarebbe aspettato un applauso – lo avrebbe sicuramente ricevuto dal suo staff – se non ci fossero stati quei poveretti aggrediti dalla “peste” e finiti anzitempo all’altro mondo in gran numero.
«E’iniziata l’aria tiepida/ e dovremo restare nelle case/ per le Antesterie/ le feste dei fiori/ in onore a Dioniso/ Non usciremo/ non festeggeremo/ bensì mangeremo e dormiremo/e berremo il dolce vino/ perché dobbiamo combattere. / Le nostre città lontane/ ornamento della terra asiatica/hanno portato qui a Gela/ gente del nostro popolo/un tempo orgoglioso/ Queste genti ci hanno donato/ un male nell’aria/ che respiriamo se siamo loro vicini/ il male ci tocca e resta con noi/ e da noi passa ai nostri parenti».
La lettura dei versi ha sospeso in una specie di limbo i guai del Veneto e quelli, affatto lievi, del governatore, obbligato a rimanere sul fronte contro un nemico subdolo, sconosciuto e invisibile. Sarebbe finita qui se qualcuno, invero più d’uno, non si fosse presa la briga di cercare il poeta dell’antica Gela. E sulle prime deve essere costata una grande fatica la ricerca, perché di Anacleonte da Gela non hanno trovato proprio nulla. Inesistente (il poeta realemente esistitito in quell’epoca si chiamava Eracleonte). Niente di straordinario, comunque; i secoli hanno sepolto, non solo sotto terra, ma dalla memoria, grandi personaggi e grandi opere. come ho avuto occasione di dire altre volte, la memoria, è “facciola”, nel senso che non guarda in faccia nessuno, non rispetta i meriti e non s’impressiona dei demeriti. Insomma, fa quel che le pare e piace, tanto non teme sanzioni, resta al timone e decide quando inondare di ricordi la mente, o quando, invece, cancellare ogni cosa.
Qualche giorno fa Anacleonte da Gela e Marcello Torrisi, insieme alla città d’origine del presunto poeta, sono tornati sulla cronaca grazie a una dotta trasmissione di Rai3, che si chiama “Maestri”, di cui consiglio di servirsi ove foste fra quelli che “sanno di non sapere”.
Edoardo Camurri, conduttore del programma, ha riproposto il video in cui il governatore Zaia legge i versi del poeta gelese, e poi ha chiesto alla sua ospite, una grecista importante, Eva Cantarella, se fosse greca l’abitudine di dire bugie e escogitare una beffa, come nel caso della poesia di Eracleonte da Gela. Eva Cantarella ha risposto che sì, i greci sono stati dei gran bugiardi. Ciò acclarato, si è volato alto, e l’informatico Troisi (nomen omen), è stato accostato a Luigi Settembrini, che ha spaesato, ai suoi tempi, il mondo culturale italiano mandando in stampa, con la complicità di un editore, un celebre saggio dedicato ai neoplatonici. Naturalmente, tutto inventato, dalla prima all’ultima pagina.
Ma c’è dell’altro, a conferma che le fake news non sono nate nei social nei nostri giorni: il Consiglio d’Egitto, di Leonardo Sciascia. Una storia, maestra di vita, quella che racconta lo scrittore siciliano. Il protagonista è l’abate maltese Giuseppe Vella, che ha fama di conoscere l’arabo e viene perciò consultato da dignitari e acculturati. Siamo nel dicembre 1782 e nessuno parla più arabo a Palermo, quando Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova nella capitale dell’isola per un problema di navigazione. Vella si presta a fare da guida all’ambasciatore fra i tesori arabi di Palermo, in compagnia di monsignor Airoldi che segnala all’ospite un codice manoscritto come un’opera di pregio, ed invece è null’altro che la storia della vita di Maometto.
Per compiacere l’ambasciatore, Airoldi affida all’abate Vella la missione speciale di tradurre il codice: Vella non se lo fa ripetere due volte. Slega ogni pagina dal dorso e gli conferisce un ordine secondo una immaginaria logica, poi lo riscrive, lo manipola, e s’inventa di sana pianta una lingua arabo-sicula. Sarà scoperto e, ormai indifendibile, l’abate Vella si autodenuncia; al fine di difendersi, sostiene che “il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri”.
La beffa di Marcello Troisi non ha alcun finale tragico. E’stata accolta con una divertita sorpresa, dal presidente della Regione Veneto, che non si è affatto angustiato quando viene preso in giro dalla stampa italiana che gli rimprovera la ingenuità e, diciamolo pure, un pizzico d’ignoranza.
Quando Edoardo Camurri ha ricordato l’episodio a “Maestri”, di recente, una telespettatrice, in tempo reale, ha creduto utile far sapere via mail al conduttore che Zaia, appresa la beffa, piuttosto che arrabbiarsi, si è complimentato con l’autore dei versi in lingua greco-geloa, e ha manifestato il desiderio di premiarlo per il pregio della sua piccola impostura.
Resta una domanda, in coda all’aneddoto. Perché l’inesistente Anacleonte poetava a Gela e non a Siracusa, Akragas, Megara o Leontini, le città siceliote? Non lo sapremo mai, e forse è meglio non saperlo, perché la beffa, vista da Gela, conserva un piccolo pregio: la città antica, ricca di civiltà, uomini di ingegno e valorosi combattenti, per molti versi dimenticata, testimonia la volontà di resilienza. La capitale della Grecia siceliota, tradita dalle incontenibili ambizioni dei tiranni, può contare ancora sulla memoria.