Se l’Italia non è un paese per sindache, e le recenti tornate elettorale lo confermano, Gela è un fortino inespugnabile; è delle poche città del Paese che non ha mai avuto una sindaca, né alcuna candidata sindaca.
Attorno al fortino è stata costruita una memoria storica che non parla di donne. Non ne trovi una nemmeno cercandola col lanternino. Ho provato a sfogliare ancora una volta le raccolte di personaggi illustri. Niente. Le donne non ci sono. Anzi, non ci sono mai state.
La produzione editoriale, dedicata ai personaggi che in qualche modo hanno fatto la piccola storia locale, non ricorda le donne. Ed è forse questo il dato peggiore, forse anche scandaloso. È come se a Gela le donne non fossero mai nate, vissute e morte. La raccolta delle celebrità – presunte o reali – è una lunga, noiosissima schiera di uomini che hanno ricoperto ruoli di qualche rilievo, senza che ai titoli corrispondano competenze, fatti, episodi tali da giustificare l’esclusione dal pallido pantheon gelese.
Gela non odia le donne, ma sembra poterne fare a meno.
Se fosse, il nostro, un comune finlandese, ci sarebbe di che preoccuparsi, non resterebbe che ricorrere alla terapia collettiva: un esercito di psicologi, psichiatri e psicoanalisti. L’atteggiamento di avversione o repulsione verso le donne, la misoginia, andrebbe studiata, analizzata, curata e, possibilmente, guarita. Ma Gela è una città meridionale di un Paese che mantiene la poco invidiabile coerenza nella esclusione di genere (femminile). Open polis riferisce che nelle ultima elezioni amministrative erano 10 i comuni capoluogo di provincia con una donna alla guida della giunta comunale. La quota di donne, che raggiungeva il 9,26%, si è ridotta al 5,56% con 6 sindache su 108 primi cittadini di comuni capoluogo di provincia.
La storia ci offre dei lumi per la comprensione di questo fenomeno. Sono passati settantacinque anni da quando le italiane hanno votato per la prima volta e dal decreto che il 10 marzo 1946 ha sancito la loro eleggibilità; quarantacinque da quando Tina Anselmi è divenuta la prima ministra della Repubblica. Si sono fatti passi avanti dai tempi di Nilde Iotti, prima donna a ricoprire la carica di presidente della Camera dei deputati nel 1979, e di Tina Anselmi, prima donna a ottenere un ministero nel 1976. Solo nel 2018 una donna, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha ricoperto la seconda carica dello Stato, la presidenza del Senato. E il carosello che ha preceduto la rielezione di Sergio Mattarella ha fatto morire nella culla qualche proposta al femminile.
Alla sottorappresentanza delle donne si è cercato di imprimere una inversione di tendenza introducendo le quote di genere e la doppia preferenza di genere, votando una donna e un uomo nella scheda elettorale, pena l’invalidamento della scheda elettorale. In vigore dal 2013 le norme hanno inciso in modo significativo sulla composizione delle amministrazioni locali, incrementando di 18 punti percentuali la rappresentanza femminile nei consigli comunali. Ma sono tanti i casi in cui le candidate donne sono state raggirate dai loro colleghi, più furbi, che le hanno usate per non incorrere nell’invalidazione della scheda.
Il quadro politico a livello locale non ha proposto alcun significativo cambiamento. Sono aumentante le consigliere, ma non ha compiuto passi avanti la presenza femminile al vertice delle amministrazioni. Insomma, la politica – insidiata dal… corpo estraneo – ha corrisposto alle aspettative “di genere”, manifestando una buona volontà di principio. Se non arrivate al vertice, non è certo colpa nostra, sussurrano i politici di lungo corso. Vuol dire che partecipate poco alla vita politica, che non c’è alcuna solidarietà al femminile, che preferite fare da “ancelle” dei caporioni.
Modeste ambizioni, insomma. E forse modeste abilità e competenze. Queste fragilità vengono solitamente ricordate con l’aria compunta, piena di rammarico. E’ la Linea Maginot che la politica – cioè la nomenclatura maschile – ha realizzato per impedire una invasione non desiderata di posti di potere. Una specie di linea del Piave: alla fine di questo si tratta, chi entra nella stanza dei bottoni fa fatica ad uscirne e tiene sprangata la porta. Più che una guerra contro le donne, è una guerra di posizione combattuta con tutte le armi, anche le più sofisticate, per lasciare le cose come sono. La cooptazione è strutturale.
Questi ragionamenti, che ci riguardano da vicino, visto come stanno le cose a Gela, abbisognano di alcune puntualizzazioni. Mancano modelli di riferimento, non si dispone di figure cui ispirarsi e ciò potrebbe avere un effetto negativo sull’interesse femminile per la carriera politica. Gli autori degli opuscoli celebrativi al maschile dovrebbero battersi il petto. Quanto tempo hanno dedicato alla ricerca di figure femminili di rilievo. Un solo esempio: si deve a Elio Vittorini il racconto della “garibaldina”, una gelese che ebbe la sua parte di storia locale. In compenso abbiamo due patrone che proteggono la città dagli accadimenti nefasti: la Madonna dell’Alemanna e quella delle Grazie. Dovrei lasciare da parte le sante e le beate, è vero.
Tuttavia, non fa male ricordare che si fa largo alla “grande madre”, purché non si metta di traverso negli affari della politica (in verità, anche negli affari di famiglia). Il patronato femminile, peraltro, nasce quasi tremila anni fa, quando Gela scelse una divinità ctonia a come “patrona” della città. Ce n’è a sufficienza per guardare al fenomeno odierno con sospetto. Le donne ci piacciono, eccome, le preghiamo, le amiamo, ci compiacciamo della loro compagnia, ma a patto che stiano al loro posto.
Di questa asimmetria le donne possono vantare forse un concorso di responsabilità. Ma è niente rispetto alle resistenze maschili. C’è il cronico problema della mancanza di tempo da dedicare alla politica. Il ruolo, faticoso, della donna nella famiglia, non è stato affatto alleggerito. Le donne si occupano della casa, tranne alcune eccezioni, e quando lavorano, e sono ormai tante che lavorano, devono sommare le fatiche domestiche a quelle lavorative. Non deve sorprendere dunque se non resti tempo per partecipare alla vita politica. Sempre che ce ne sia una, che meriti di esserepartecipata. Dove sono i partiti? Quali sono i luoghi del confronto e della partecipazione? Quali iniziative assumono i partiti, di che cosa si occupano, quali temi affrontano giorno dopo giorno, ascoltando i bisogni della comunità? Ci si affida al comunicato stampa, all’interrogazione, al dibattito d’aula, non c’è tempo per la formazione delle idee e dei progetti.
Ma se ci scostiamo dall’ambito partitico, scopriamo che le donne dedicano tempo e lavoro al volontariato, all’associazionismo, alla partecipazione ed al dibattito sui temi che l’attualità propone. Si scopre anche che il loro apporto nel mondo delle professioni è notevole. L’avvocatura, il management, la medicina offre importanti figure di riferimento. Nella società civile le donne sono salite nella considerazione della comunità. Però, la linea Maginot resiste. La selezione del personale politico è in mano al genere maschile, e donne disposte a sgomitare sono poche, molto poche (e questo va a loro merito).
Un panorama della città amministrata al femminile? Sono solo due le donne in Consiglio comunale prima della riforma elettorale, applicata a Gela nel 1994, una democristiana (la prof. Miano-Incardona) e l’altra comunista (Maria Morinello). Nel maggio del 1990, troviamo la prima donna gelese eletta al Consiglio provinciale, Carmela Gerotti, Pci.
Bisognerà attendere il 2002 per rivedere un paio di donne tra i banchi del Consiglio. (Maria Pingo di Forza Italia, e Angela Galioto, Alleanza Nazionale). Solo anni dopo il consiglio comunale si aprirà alle donne, e con il consiglio le giunte municipali nominate dal sindaco eletto a suffragio diretto. I sindaci in passato hanno fatto la loro parte nel proporre donne, ma si sono comportati come i droghieri quando devono distribuire pozioni velenose. Le disuguaglianze con meccanismi di esclusione sono ancora molto forti. E più in alto si va, meno poltrone si trovano per le donne. Poltroncine, seggiole e strapuntini, spesso traballanti.
Non vi pare che sia venuto il momento di cambiare le cose? E non per un omaggio, pur doveroso, alla democrazia, ma perché Gela dispone di copiose risorse al femminile, finora tenute in disparte. Gela ha bisogno di donne in gamba, dotate di competenza e tenacia, e di quelle peculiari caratteristiche unanimemente riconosciute alle donne: maggiore trasparenza e cooperazione nei processi decisionali, livelli di corruzione più bassi, spirito di collaborazione bipartizan, un’attenzione alla destinazione di risorse per la famiglia, la salute, il welfare sociale.
Il Corriere di Gela ha intrapreso una meritevole iniziativa, una serie di interviste ad alcune donne che rivestono nella società civile ruoli di primo piano. Alcune di loro le conosco personalmente e mi fido del loro buonsenso e delle loro competenze. Altre, pur non conoscendole, esprimono buone idee e esperienza. Hanno tutte quel che serve per amministrare una città difficile e rissosa come Gela. Sono brave, serie e non hanno le mani in pasta. Non sono le sole, naturalmente. E’ l’ora di “stanarle” ed affidare loro più responsabilità. I partiti se ne sono accorti che esistono o preferiscono pestare l’acqua nel mortaio? L’unica rivoluzione possibile, a ben vedere, è un salto di qualità della democrazia, con una presenza di vertice delle donne.
Potrebbe essere il Corriere di Gela a metterle attorno ad un tavolo e farle incontrare e conoscere alla città. Chissà che fra loro non sorga una comune solidarietà, un spirito identitario di cui la comunità non è ancora provvista.