Un episodio, passato pressoché inosservato, ha indotto tanti a chiedersi se i giorni che viviamo sono i più felici per la storia quotidiana di Gela (o quella della Sicilia).
Il Prefetto di Caltanissetta, Chiara Armenia, chiamata a presenziare ad una importante riunione, svoltasi in città, dedicata alle legate alla zona industriale di Gela, abbandonata al suo destino, ha ascoltato con pazienza le ragioni degli amministratori e quelli degli industriali, e sopportato un lungo scambio reciproco di accuse fra le parti in causa, prima di decidere il “no contest” e interrompere le… ostilità, tornando, ahimè, a Caltanissetta, dove non giunge nemmeno l’eco di ciò che avviene nella periferia meridionale della provincia.
Decisione corretta, quella del Prefetto: una presa d’atto, non c’era il clima adatto per confrontarsi e stabilire il da farsi, le tensioni sono prevalse e i problemi sono rimasti inevasi. Routine, viene da dire, che spiega il perché la comunicazione sia stata così tiepida. Se la litigiosità è una consuetudine, la notizia dell’ennesimo litigio diventa sempre meno… notizia. L’interrogativo però, se cioè si sta peggio di prima in materia di rappresentanza politica, mantiene la sua dignità.
Ogni tanto si ha bisogno di guardarci indietro. Ma quando ciò avviene, prevale la nostalgia dei tempi andati, e non sempre è una buona cosa. E’ come essere strabici, o avere nel mirino quello che ci interessa di più, lasciando il resto ai posteri. Un pessimismo infinito, la sensazione che alle nostre spalle abbiamo lasciato il nostro futuro, divenuto ostile perché non sappiamo più immaginarlo con favore. Un errore, in linea di principio: il più delle volte commettiamo gravi peccati di omissione, manifestando una netta volontà di privilegiare quel che non c’è più. E ad andarci di mezzo, e subirne le conseguenze, è il presente, che non ci piace per niente.
Fra i temi che ci rimandano più frequentemente indietro c’è la politica: semaforo rosso, su quella non abbiamo dubbi, si stava meglio quando si stava peggio. Arridatecce er… eccetera. Provo a riflettere, spero senza pregiudizi, su questa raffinata voglia di passato, ma non posso esserne certo: ho fatto parte, seppure per un tratto della mia vita, di quella classe politica che oggi viene, a torto o a ragione, rimpianta.
E devo confessare che non erano tutte rose e fiori. Di buono c’era che non avevamo alcun rimpianto del passato (guerra, fascismo ecc.). Non sono mai stato in prima linea, e nemmeno nelle truppe d’assalto, nella militanza attiva. Quadro intermedio, insomma, o qualcosa di simile. Posso parlarne quindi da un osservatorio privilegiato e con qualche cognizione di causa, dal momento che accanto alla politica, che mi rubava un sacco di tempo, dedicavo la mia giornata al mestiere che faccio da sempre, raccogliere informazioni e riflettere su di esse per i lettori.
Questa doppia visione della realtà mi ha regalato una marcia in più: e certe volte finivo con il dribblare me stesso quando affrontavo un argomento del quale ero in qualche misura responsabile con spirito critico. Era come vedere me stesso dal balcone di casa, confortato della distanza che mettevo rispetto ad una perniciosa realtà, quasi che temessi di subire l’inevitabile contagio. Una separazione fittizia, seppure comoda e scomoda insieme; stavo da una parte e credevo in quel che facevo. Un pizzico di schizofrenia non guasta, dosi da farmacista però.
Bene, questa premessa serve ad avvertire che in materia politica le mie sono opinioni di parte, che risentono inevitabilmente della partecipazione attiva alla vita amministrativa, e che la mia indulgenza verso quell’età, è l’effetto del sacrosanto amor proprio. Non posso crucifiggermi, insomma.
La sto facendo lunga. Primo quesito, riferito alle cose di casa nostra: gli uomini politici ed i rappresentanti delle istituzioni appartenenti al trentennio che va dagli anni cinquanta agli anni settanta erano più affidabili, morigerati, competenti rispetto a quelli che ci rappresentano nei nostri giorni? Il consiglio comunale rappresentava meglio di oggi la città? E nelle assemblee legislative Gela era ben rappresentata?
Comincio con l’ultimo dei quesiti, i parlamentari di Gela: quelli che riuscivano ad attraversare l’imbuto nisseno – il capoluogo di provincia dava le carte – erano pochi ed a parte Salvatore Aldisio, contavano poco e niente, e quando contavano si facevano gli affari loro, nel senso che avevano un problema urgente da affrontare, ereditare se stessi. La maniera più utile per risolverlo, era legarsi ai capicorrente del partito di appartenenza. (non c’era schieramento che non le ospitasse al punto di diventare partitini, fazioni essi stessi). Pensate che ora sia diverso?
Non ricordo cittadini di Gela con il grado di capocorrente. I capicorrente provinciali avevano tutto in pugno, o quasi, e contrattavano con i capicorrente regionali e questi, a loro volta, subivano le disposizioni nazionali. Una piramide o, se volete, un sistema feudale riveduto e corretto.
Era questa la cornice dentro la quale inserire il quadro delle consultazioni politiche: spettava ai capicorrente selezionare i candidati, e soprattutto, tirare la volata con le cosiddette “cordate”. Non ne avete sentito parlare? La cordata era un patto di sangue fra candidati – due, tre, quattro a seconda del numero di preferenze concesse – che viaggiavano in perfetta comunione, raddoppiando, talvolta triplicando i suffragi.
E non c’era trippa per gatti per gli esclusi: i solisti, seppure bene in vista, dovevano cedere le armi davanti al seggio: non avrebbero mai potuto superare i componenti delle cordate. Il meccanismo era collaudato, nessuno sgarrava, il rischio sarebbe stato troppo grande. Chi giocava da solo, rompendo il patto di sangue, ed era pescato con le mani nel sacco, faceva la fine del topo: inghiottito e digerito da gatti famelici.
I candidati gelesi in cordata sono stati sempre pochi, anzi non ce ne sono stati a mia memoria. La cordata era rispettata dall’elettorato gelese, sempre e comunque, al di là della rappresentatività: c’era disciplina negli elettori gelesi. Una disciplina clientelare? Proprio così, clientelare. Il voto di scambio, che oggi viene punito dai tribunali, era il core business: tuo figlio è disoccupato? Ci penso io.
Non hai ottenuto l’abitabilità? Non ti preoccupare, so come mandare in porto la pratica. Tu fai un favore a me ed io faccio un favore a te. Il festival del millantato credito. Le promesse non mantenute? Sì, tante, ma l’elettore dimenticava, era indulgente, e la volta successiva, incalzato dal bisogno, tornava a credere. A chi? Ai vassalli gelesi dei capicorrente.
Il sistema funzionava magnificamente sia a destra che a sinistra. Con alcune differenze sostanziali: nel Pci vigeva il centralismo democratico: gli ordini di scuderia venivano impartiti dal gruppo dirigente ed eseguiti, perinde hac cadaver, allo stesso modo di un cadavere, sottomissione assoluta. Previsioni rispettate con uno scarto del dieci per cento. Un partito “serio” si pensava allora (oggi forse la penseremmo in altro modo), nel senso che la truppa era disciplinata ed obbediente. Prima il partito, e poi le ambizioni personali.
Questo sistema funzionava anche nel Psi, ma fino a un certo punto. Con il centrosinistra, i socialisti adottarono entrambi i criteri, quello democristiano delle cordate e l’altro di marca comunista, con gli ordini di scuderia. Il risultato? Confusione e conflittualità permanente. Nel Psi riuscì a svettare qualcuno, ma solo negli anni ottanta. Fino al decennio precedente il buio assoluto, con l’eccezione di un senatore, socialista (Tignino), che fu candidato con il Blocco del Popolo, se non vado errato.
Il seggio senatoriale di Gela era appannaggio, nel Pci, del gruppo dirigente regionale, che sceglieva il candidato giusto, con il beneplacito, anzi la presa d’atto, delle sezioni gelesi. Poteva fare altrimenti un movimento politico internazionalista? No, presentare un candidato locale era provincialismo becero. Così andarono le cose fino a che non venne designato un dirigente comunista di origine gelese che si era fatto le ossa altrove, nel nord.
Era la persona adatta, casualmente gelese, ma fuori dall’abbraccio mortale di amici, parenti, capi e capetti. E da allora nel Pci gelese, che quanto a suffragi contava molto di più di quello nisseno, cominciò a pendere la bilancia a favore di Gela (e vennero eletti tre deputati regionali).
Non faccio nomi, come avrete notato. Il motivo è semplice: voglio che si abbia attenzione sul sistema piuttosto che sull’ascendente personale dei candidati.
A conferma dello stato di “cattività” in cui fu tenuta Gela, nonostante la presenza di un capo corrente, forse troppo mite (Salvatore Aldisio), ricordo che nessun sindaco di Gela è mai diventato parlamentare. Candidati sì, parlamentari no nella Dc. Com’è possibile? Sarebbe bastato ”chiudere” sul sindaco candidato, l’esercito degli elettori gelesi sopravanzava quello del resto della provincia, e invece niente.
Gli ex sindaci finiti al macero per volontà dei notabili locali, secondo cui meglio nessuno che il nemico a Palermo o Roma. Le cordate non lasciavano spazio; e rilasciavano una patente di mentalità aperta, esempio di comportamenti affatto provinciali.
Il dominio nisseno finì negli anni ottanta, grazie anche alle terribili vicende di mafia. Mafiaville cambiò le carte in tavola, più che le tessere, le cordate (ormai soppresse per referendum) e i capicorrente, nel decennio successivo prevalse “l’antimafia”, il resto divenne un pallido ricordo, sparirono i partiti storici, le varie obbedienze, i capicorrente e tutto il resto. La rappresentanza parlamentare gelese era nutrita, cambiò tutto senza cambiare niente. Facendo un rapido censimento delle opere pubbliche realizzate a Gela troviamo Salvatore Aldisio e Enrico Mattei sul podio. “
Provo a rispondere ad un altro dei quesiti posti all’inizio: il consiglio comunale rappresentava meglio di oggi la città? Credo che non ci sia partita, su questo ho pochi dubbi (e non mi riferisco necessariamente agli attuali consiglieri, di cui so poco e niente). Nelle stagioni politiche degli anni sessanta, in consiglio comunale erano eletti anche parlamentari e una rappresentanza decorosa della cosiddetta società civile: medici in prima linea, avvocati in seconda, insieme a docenti, tecnici ed operai.
Nessuno che avesse bisogno di campare con il gettone di presenza, insomma. Ricordo che fra i consiglieri comunali, negli anni sessanta, c’erano Salvatore Aldisio, Guido Faletra (Pci), Nino Occhipinti.
I due grandi partiti, Pci e Dc, si spartivano il grosso dei suffragi, e bastava un cambio di casacca per mantenere la Dc al vertice del governo cittadino. La conversione di un solo consigliere, dai banchi del Pci a quelli della Dc, rimetteva le cose a posto, lasciando i comunisti all’opposizione. L’accoglienza della “crisi” ideologica suscitava indignazione, talvolta la gogna pubblica, oggi il cambio di casacca è consuetudine.
E allora, come la mettiamo? Si ha diritto alla nostalgia o no? Credo che sia legittimo recriminare, se non altro per la modesta qualità della classe politica. Sulle colpe, ho le idee chiare: la società civile non vuole esporsi, preferisce non farsi sputtanare, visto l’andazzo. E quando è il momento di scegliere, gli elettori dimenticano di avere detto peste e corna di tutto e tutti, e scelgono l’usato sicuro. Non si chiama così?