Vincenzo Maganuco, il romanzo del cavaliere senza paura

Vincenzo Maganuco, il romanzo del cavaliere senza paura

Cavaliere era lui nel mondo del calcio, in Sicilia: Vincenzo Maganuco.

Silvio Berlusconi non era ancora sceso in campo e la squadra di calcio locale nuotava nel mare tempestoso dei campionati regionali dilettanti, e talvolta nella categoria poco più alta. Quando se ne andò – aveva varcato la soglia dei 90 anni, nel 2006 – Gela si sentì orfana del Cavaliere; l’anno successivo, in occasione del primo anniversario, fu la cronaca a ricordarlo, e solo la cronaca. La città l’aveva già dimenticato. E quando mai Gela è riuscita a rendere merito a coloro che hanno fatto la sua storia? 

Grazie alla scuola i ragazzi imparano qualcosa sulla Gela greca, Eschilo, Ippocrate e i rodio-cretesi fondatori di Ghelas, ma non sanno niente di coloro che hanno lasciato un segno durante la loro vita. Il Cavaliere è uno dei dimenticati. Avrebbe meritato di entrare nel Pantheon virtuale della città, ma il Pantheon non esiste, perché non esiste la consuetudine della memoria. Vincenzo Maganuco non è solo il calcio: fu un imprenditore, un manager brillante, che scommise, uno dei pochi, sull’industria all’indomani della costruzione del petrolchimico a Piana del Signore. Fece sorgere la Gela Plast, ubicata proprio a ridosso degli impianti. 

Vincenzo Maganuco credette che la svolta fosse finalmente arrivata, era certo che la materia prima, prodotta a Piana del Signore, avrebbe favorito la sua azienda, grazie al taglio dei costi di trasporto. Non fu così: la Gela Plast non poté contare su incentivi, né privilegi, né sui costi al netto del trasporto, anzi il prezzo di vendita del prodotto di base fu caricato degli oneri di trasporto nelle grandi distanze. Piuttosto che aiutare Gela, era l’impresa gelese ad aiutare quella del Nord. La Gela Plast dovette acquistare in Ungheria la materia prima, una clamorosa sconfessione della favoletta sugli effetti moltiplicativi che avrebbe “indubbiamente” prodotto la grande industria di base. 

Subìto lo smacco, il Cavaliere fece sapere al mondo intero come stavano le cose. Maganuco non dissotterrò l’ascia di guerra, la storia tuttavia fece rumore: il petrolio non avrebbe fatto di Gela la Bengodi del sud, anzi. Ricevette un’offerta d’acquisto della fabbrica da parte dell’Eni nel tentativo di rabbonire l’imprenditore, ma Maganuco rifiutò l’offerta, pur allettante, rispose che non avrebbe rinunciato al libero mercato, e l’impresa non avrebbe per questo chiuso battenti. Quel rifiuto gli costò, ma non se ne pentì mai. L’episodio oggi è diventato un aneddoto, raccontato da pochi, ma niente di più. E invece porta con sé tutta la storia dell’industrializzazione di Gela, le sue menzogne e le insidie, le ipocrisie e il cinismo. 

Il grande amore del Cavaliere, però, fu lo sport; l’atletica dapprima, che aveva praticato nella giovane età con successo, e il calcio poi, da dirigente del Gela prima e Terranova poi.  Un amore sviscerato, cui si dedicò senza risparmiare energie e risorse. Il pallone, è vero, non può stare alla pari con l’economia, il benessere e il malessere, in una parola la vita; eppure, l’immagine di una città, grazie ai colori della società di calcio, è un albero che mette radici nella comunità, restituisce l’identità svogliata. 

Vincenzo Maganuco fu un manager attento e scrupoloso, e come presidente, si affidò, con buoni risultati, al suo intuito nel reclutare i calciatori di cui disporre. Si guadagnò l’amicizia di uomini importanti nel mondo dello sport, fra gli altri Artemio Franchi, presidente della Figc, e Sandro Ciotti, indimenticabile cronista radiofonico, del quale in tanti ricordano una presunta militanza in maglia giallorossa nella squadra del Gela. 

La popolarità gli avrebbe consentito di entrare in politica a vele spiegate, avrebbe fatto il pieno di consensi, ma fu un passo che non fece mai, né ebbi modo di chiedergli le ragioni di quella distanza mantenuta con coerenza tutta la vita. I suoi contatti con le autorità politiche locali erano frequenti, e qualche volta non prive di turbolenze.

C’è chi ricorda ancora il giorno in cui prese i registri di cassa della società di calcio e si recò in Municipio, dove depose tutto quanto sulla scrivania del sindaco, a quel tempo Tano Battaglia. “Vedetevela voi”, disse e voltò le spalle a Battaglia. Quel gesto rimise le cose a posto, ma fino a un certo punto. Le società di calcio erano, e sono, delle idrovore, e chi ci sta dentro ci rimette le penne il più delle volte. 

Frequentai assiduamente il Cavaliere ed intrattenni con lui una affettuosa amicizia, negli anni della sua presidenza scrivevo anche di eventi sportivi, segnatamente di calcio, per il Giornale di Sicilia, ogni “maledetta domenica”. Viaggiai in auto più volte con lui, seguendo la squadra. Vincenzo Maganuco era una persona gradevole, di quelle che non ti fanno mai pentire di stargli accanto. Era schietto, ironico, compìto, elegante, altero. Un gentiluomo, figlio del suo tempo. Non aveva figli, ma ne aveva virtualmente adottati tanti, gli atleti che militavano di anno in anno nella squadra di calcio. 

Mi rammarica che la sua lezione di vita sia stata dimenticata. Lasciando Gela, nel lontano 1978, mi sono sentito orfano di poche persone, ma fra quelle poche c’è lui. Raccontarvi Vincenzo Maganuco serve alla città, ai suoi ragazzi, alle volte in cui si sentono sradicati nella città in cui vivono, non potendo contare su modelli di riferimento. Penso a loro, ricordando il Cavaliere, o meglio “zio Vincenzo”, come lo chiamavo durante la mia lunga “militanza” nel mondo del calcio. 

Se n’è andato nel 2006, quando l’ho conosciuto era un giovanotto di bella presenza: baffi alla Clark Gable, l’eroe di Via colo Vento, una gestualità sobria, occhi neri e vivaci, la parlata fluente e senza inflessioni dialettali. Quando raccontava le sue storie, era come viaggiare con lui con l’immaginazione: entrare, uscire, essere coinvolti nella narrazione. Gli scatti d’ira erano fugaci, non lasciavano il segno. L’empatia cancellava le asperità. 

Era alieno da ogni radicalismo e soffriva l’incompetenza, il velleitarismo, la pigrizia, la banalità. Il suo codice di comportamento era semplice, dettato dalle regole sportive. Non aveva nemici, ma avversari. Non gli piaceva perdere, naturalmente, ma sapeva conciliarsi con le sconfitte. Quando credeva di avere subito un torto – e la sua squadra in campo era stata punita dal direttore di gara – si chiudeva nel silenzio durante i viaggi di ritorno.  Lo sport gli regalò una visione accettabile del mondo, la competizione gli dava adrenalina, la partita era da giocare comunque, e bisognava essere preparati ad accettarne le conseguenze. 

Era una mente che intuisce, lasciando che il mondo scorra, e l’ostinazione del naufrago che ha scelto di fidarsi della roccia cui si è aggrappato. Si fidava del suo intuito, e faceva bene a fidarsi perché generalmente ci azzeccava. Sbagliò una sola volta, quando non vide in Salvatore Bagni il campione che sarebbe diventato, ma è grazie a quell’errore che il ragazzo – madre gelese, padre emiliano – finì all’Inter, al Napoli, giocando a fianco di Maradona, ed arrivò anche in nazionale; quindi, il senso di colpa fu compensato dalla carriera fulgida del talentuoso calciatore. 

Lo conoscevo così bene il Cavaliere da avvertire le reazioni più lievi ed impercettibili, come le sopracciglia che si alzavano per manifestare il dissenso. Quel movimento delle sopracciglia era un gesto estremo, come staccare le pupille fuori dall’orbita, per un uomo dal temperamento sempre composto e mai sopra le righe. 

Commetterei una imperdonabile omissione, se non ricordassi la moglie, Iole Mangione, sorella di un nostro caro collega, Giovanni Mangione. Per la signora Iole, il Cavaliere era “giuiuzza”. Non aveva un nome, ma solo un vezzeggiativo. Ricordo che durante i nostri viaggi in auto, era solita avvertire il marito della sua audacia nella conduzione del veicolo. Non ho mai ascoltato una reazione di dissenso un cenno d’insofferenza: Zio Vincenzo ascoltava e calava la testa, senza fare commenti. E mi sentivo colpevole perché non possedevo questa virtù con le persone care: devono volersi un mondo di bene. E non pensavo affatto male, era proprio così. 

Nella foto, l’ex radiocronista sportivo e conduttore televisivo Sandro Ciotti all’ex Motel Agip di Gela, tra l’ex presidente del Terranova calcio cav. Vincenzo Maganuco (alla sua sinistra) e l’ex assessore comunale Lillo Di Dio. Dietro di loro, il medico dott. Giuseppe Filetti (Radiogela);il primo a destra, un riccioluto e giovanissimo Enzo Di Dio (Photographer)