Quando affondò la pala nella sabbia, il suo orto nasceva sulle dune della collina di Gela, il contadino Vincenzo Interlici (nella foto) ebbe un moto di disappunto.
Che mai può essere, si disse: la pala è sempre entrata nella sabbia senza farsi pregare. Il disappunto presto però si trasformò in stupore, e lo stupore in frenesia, mentre la pala affondava con rinnovato vigore nella sabbia, denunciando il medesimo inciampo. Venne alla luce la pietra arenaria, che il contadino girò e rigiro fra le mani. E siccome non gli mancava l’ingegno, come ad ogni contadino di razza, avendo sentito parlare del teatro greco, che Gela conservava, nascosto, nelle sue viscere, credette di averlo trovato.
Era di mattina presto di una giornata di sole, almeno così ce la immaginiamo, quando Vincenzo Interlici scavò per ore ed ore. Niente arriva per caso, pensava, e cercò fra i sogni della notte precedente, se mai avesse ricevuto qualche segnale, che avrebbe potuto spiegare l’eccezionale ritrovamento. E dopo una lunga meditazione ricordò di avere avuto la profezia notturna. Di che cosa si trattasse non l’ha mai riferito ad alcuno, ma di sicuro era qualcosa che l’aveva indotto a affondare la pala nel luogo in cui aveva trovato la preziosa reliquia di pietra arenaria. Non potendo spiegarlo altrimenti, finì con il credere in quel sogno che gli aveva regalato la “truvatura”.
La leggenda narra, si legge ancora oggi nei libri e sulla rete, che Vincenzo Interlici, contadino e piccolo proprietario di un appezzamento di terreno in contrada Capo Soprano a Gela, nel 1948, grazie ad un sogno premonitore, ha scoperto le mura timoleontee risalenti al terzo secolo a.C, distrutte, parzialmente, dal cartaginesi nel 282 a.C.
Mai e poi mai avrebbe potuto immaginare il buon Vincenzo che grazie al sogno, avrebbe ricevuto la gloria, e che la sua scoperta avrebbe messo in ombra il lavoro, faticoso, di archeologi celebri, come Paolo Orsi e Dinu Adamastenu, Piero Orlandini ed altri. La leggenda, mai messa in dubbio, fece infatti di Vincenzo Interlici, il cittadino più celebre di Gela. Era lui, e non gli archeologi, a ricevere dignitari e teste coronate, esperti, reporter e scrittori di mezzo mondo.
Che la leggenda sia diventata mito, ed il mito storia, non stupisce: Gela antica è terra feconda di messi, miti e leggende: la più nota fra le leggende riguarda il più grande poeta tragico della storia antica, Eschilo, che nel 456 a.C. morì a Gela, dove risiedeva da un paio di anni circa, a causa della “svista” di un’aquila: scambiando il suo capo calvo per una pietra, lanciò una tartaruga che aveva artigliato nei paraggi, alfine di spaccare il guscio e potere gustare le sue carni. Eschilo sarebbe morto sul colpo, e Gela l’avrebbe pianto come suo figlio adottivo. Leggenda dunque, come il sogno di Vincenzo Interlici, della quale nessuno ha mai nutrito dubbi.
Gli uomini si sono azzuffati sul nulla, mai su una leggenda o su un mito. E che le cose stiano così, posso testimoniarlo, da quando ho il presentimento che dopo avere combattuto le mie zuffe sul nulla, di non vivere un’ultima zuffa. Se mi chiedete perché, vi rispondo subito che a persuadermene sia un sentimento che mi rode, il sentimento di un amore per la vita non corrisposto.
Non c’entra niente con Vincenzo Interlici. Ma non del tutto. Nell’età matura, quella in cui il contadino Vincenzo Interlici visse la sua giornata di gloria, si compie un salto di specie, che trasforma la nostra mente: subiamo la metanoia, il processo di ravvedimento e la rinuncia a tante nostre convinzioni. Entriamo in un vicolo stretto, dal quale sappiamo di non potere uscirne vivi.
Vincenzo Interlici ha dato un senso alla sua vita, grazie al suo sogno. Una mosca bianca. Per questa ragione, ed altre che non sto ad elencarvi per non tediarvi, ho avuto sempre un debole per i sognatori, anche per quelli che, mentendo a sé stessi, affidano i loro desideri, in definitiva il futuro, ai sogni. Sogni ad occhi aperti, però. Si rannicchiano in un confortevole divano, una specie di triclinio romano e in serenità di spirito attendono fiduciosi il risveglio in un laddove misterioso.
Ho ritagliato, virtualmente, gli articoli che raccontano della stupefacente vicenda umana di Vincenzo Interlici, archeologo per caso, e ho collezionato le sue immagini, che sono tante, per la sterminata quantità di reportage a lui dedicati. E ho scoperto con sommo stupore che il suo ritratto è sempre lo stesso, nonostante lo scatto fosse avvenuto da mani diverse e tempi diversi. Un mistero. Ogni leggenda ne conserva gelosamente uno.
Vincenzo Interlici sembra avere la stessa età, la stessa postura, lo stesso abbigliamento, lo stesso sorriso burbero, il cappello da guardia armata, i baffi all’Umberto, due schegge imperiose, e i pantaloni alla zuava, la giacchetta polverosa, la mano destra appoggiata sul bastone conficcato nella sabbia. Più che una foto del nostro tempo, sembra il dagherrotipo dell’Ottocento, senza il colore violaceo.
A questo dagherrotipo sono aggrappato, sempre più saldamente, man mano che gli anni scivolano in avanti. In esso leggo la mia storia giovanile. Vincenzo Interlici ai miei occhi è un libro da leggere e rileggere, il racconto immutabile di un’epoca e di una civiltà in bianco e nero, la vigilia di ogni risveglio, nel quale rivedere con disincanto ciò che è ormai alle nostre spalle.
Il contadino di Capo Soprano non è per me solo colui che, nell’immaginario di tanti, sognò e scoprì la muraglia timoleontea, ma la traccia della mia storia antica, l’impronta, indelebile, dei miei amori giovanili e delle mie dolci illusioni. Le visite alla grande muraglia, infatti, furono galeotte e frequenti quanto gli incontri con Vincenzo Interlici.
Il lascito di Timoleonte c’entra ben poco, perché fra le passeggiate alla terrazza del Molino a Vento, la vicina villetta, il Milite ignoto e la colonna dorica, e quelle a Capo Soprano, era la seconda a guadagnare la preferenza; alla terrazza si andava con la banda di amici, a Capo Soprano con la fidanzatina del liceo, di cui conservo ancora un ricordo così irresistibilmente vicino da lasciarmi senza fiato, quasi che potessi parlarle, afferrare la sua mano e fare con lei un’altra visita a don Vincenzo e la “sua” muraglia.
A causa della frequenza di quelle passeggiate il guardiano della muraglia comprese che la nostra presenza non testimoniava un morboso attaccamento per la civiltà greca, così obbedii al dovere di disobbligarmi con qualche dono, mai in denaro, come turisti al termine delle loro visite. E lui, don Vincenzo, entrato ormai in confidenza, accettando il pacchetto di sigarette con grazia, ci risparmiava la storia delle mura, e ci raccomandava, piuttosto, di non fare tardi, perché bisognava rispettare l’orario di chiusura dell’area archeologica.
Cercate d’immaginare l’istante in cui, abbracciato castamente con la mia fidanzatina dietro gli arbusti e il canneto, giusto dirimpetto alla grande muraglia, trasalivamo udendo il passo cadenzato di don Vincenzo e del suo bastone che batteva a terra per avvertirci della sua presenza.
Durante le prime visite alle mura, comunque, non si poté sfuggire al rito: don Vincenzo, ispirato, raccontò, come fosse la prima volta a raccontare, con il bastone conficcato sulla sabbia che disegnava il campo di battaglia, il sogno profetico di una notte di primavera (o estate?), la pala che s’inceppa sulla sabbia, lo stupore per il ritrovamento.
La narrazione giungeva all’acme, nella narrazione della sanguinosa ultima battaglia dei Geloi contro i cartaginesi. I combattenti guadagnavano man mano il diritto a all’eternità, attraverso le parole della tradizione: i “nostri”, geloi di stirpe greca, diventavano Paladini di Francia, dipinti sui carretti siciliani, e i nemici, i barbari. Ci faceva sentire, don Vincenzo, senza averne coscienza, l’eco della battaglia di Maratona, combattuta dagli ateniesi, e le nobili rime di Eschilo, valoroso soldato, nei Persiani, barbari anche loro, al pari dei cartaginesi.
Quella mattina, in cui ci perdemmo di vista con la mia fidanzata, e non ricordo perché in realtà non so nemmeno quando avvenne, ho sempre immaginato che cadesse una pioggia sottile, sciroccosa e insolente.
Ho impiegato molto tempo a mettermi alle spalle quel tempo e quell’età, ed imparare che a tradire non è solo il futuro, ma il passato, e pure il presente, la realtà che non esiste. I ceppi e le devastazioni del presente così corrivo, mi rimanda a don Vincenzo ed Eschilo, ed Eschilo alla sua saggezza, all’ingiustizia che è nella natura delle cose. L’ingiustizia di un sogno ormai seppellito. Non dalle mobili dune di sabbia, padrone della loro esistenza, tanto da disubbidire al presente infido, ma dalla memoria.
Se mi chiedessero chi avresti voluto essere, risponderei Salvatore Parlagreco, ma non è possibile, aggiungerei. Mi accontenterei di essere Vincenzo Interlici, che fece della sua vita un sogno.