Febbraio 1976, once upon in a time, c’era una volta; anzi, c’è ancora, Radio Gela.
Il cielo in una stanza, come dice la canzone di Gino Paoli, lo toccammo con mano quando Gaetano Patti ci fece parlare a tutti da un microfono. Tano era il mago dei sogni, ci consegnò l’etere, una cosa virtuale e di inconcepibile. L’etere divenne nostro, ci offriva il potere, è il termine giusto, di parlare a tutti contemporaneamente. Un telefono moltiplicato per mille, centomila, un milione di ascoltatori. E nostro tramite quel potere potevamo spartirlo con la città.
L’accesso ai mezzi di comunicazione, come la radio, la televisione, cioè l’opportunità di dire quel che si pensa era permesso a pochi, e quei pochi stavano a Roma, Milano e, in misura marginale, a Palermo. Bisognava sintonizzarsi, per ascoltare pochi privilegiati, sulle stazioni radiofoniche dei canali della Rai.
Che era, per carità, una gran cosa agli occhi, anzi le orecchie, di chi aveva vissuto gli anni del ventennio fascista quanto dalla radio giungevano parole d’ordine, fatti depurati da ogni seppure minima critica verso i potenti del tempo. Gli italiani sapevano quel che dovevano sapere, si radunavano a Piazza Venezia a migliaia ogni volta che il capo dei capi, Benito Mussolini, arringava la folla.
Erano occasioni imperdibili, perché la sacralità del mezzo faceva sì che l’apparizione dal balcone di Piazza Venezia si trasformasse in una specie di miracolo. La voce si faceva carne, prendeva sembianze umane. Ci sentivamo padroni di qualcosa che non ci apparteneva, ed era una sensazione straordinaria. Era possedere ciò che non si può possedere. Per la contradizion che nol consente, grazie al mago ed ai suoi congegni inaccessibili agli umani.
La fascinazione del mezzo contagiava il popolo ed accresceva esponenzialmente il carisma del capo dei capi. Per molti anni, dopo la nascita della Repubblica, gli italiani apprezzarono quel che loro veniva dato attraverso la radio pubblica, e non mi sogno di dar loro torto: respiravano la libertà di pensiero, di parola e di opinioni prima negata. Ma con il tempo, per buona sorte, si cominciò a pretendere di più.
Si scoprì che alla libertà di ascoltare bisognava aggiungere la libertà di fruire del mezzo, accedervi, come attori principali. L’ordine del discorso doveva cambiare, a prescindere dal ruolo, dal peso politico, dal carisma, dalla cultura: tutti, insomma, avevano diritto a parlare, così come tutti avevano il diritto di ascoltare.
La democrazia doveva compiere un altro passo, anzi un salto. Gli scettici pensavano che il microfono sarebbe rimasto nelle mani dei potenti, e non sarebbe cambiato proprio nulla, altri credevano però che quel salto andasse fatto, anche a costo di forzare la legge, trasgredendola se necessario.
Violare il monopolio dell’etere, infatti, avrebbe comportato una trasgressione grave, che prevedeva sanzioni pesanti e perfino il carcere. Furono compiuti tentativi di modificare le regole a livello parlamentare, ma chi stava al potere – e a quel tempo era la Dc a fare il bello ed il cattivo tempo, si mise di traverso.
C’era il rischio che l’accesso alla radio ed alla televisione cambiasse le carte in tavola, che gli italiani ascoltassero e vedessero personaggi nuovi, che le parole ed i gesti dei governanti, e non solo, venissero declinati in modo sconveniente, magari portando altrove il consenso elettorale.
Sulla strada della democrazia questi momenti di stallo si sono sempre manifestati e ci saranno anche in futuro. Per aprire una porta chiusa a doppia mandata senza avere la chiave, non c’’è altro verso che prenderla a spallate, magari usando un ariete, e sfondarla.
Mentre si dibatteva, ci si confrontava, si dialogava, ed il tema della fine del monopolio Rai guadagnava il centro del dibattito politico, a Gela avvenne qualcosa di cui è lecito, ancora oggi, sentirsi orgogliosi. E, perdonatemi lo zelo, menare vanto, perché chi scrive e pochi altri, insieme a Tano Patti e Emanuele Tuccio e il compianto Ciccio Caccamo, decise di dare la spallata, senza fare alcun contro delle conseguenze.
Confidavamo di aprire una breccia e, magari, di mettere sul fatto compiuto i duri del nuovo regime. Avevamo, ahimè, l’età giusta per sorvolare sulle conseguenze, e quindi andammo avanti con l’audacia degli entusiasti, che non fanno il conto con la realtà.
In febbraio del 1976 Gela, insieme ad altre due radio in Italia (Genova e Ragusa) ebbe la sua radio libera. Dal primo giorno proponemmo ben cinque radiogiornali, microfono aperto ai cittadini, le dirette degli eventi, a cominciare dalle partite di calcio. Ricordo, soprattutto, un format che sarebbe stato seguito successivamente dalle stazioni radio pubbliche nazionali.
Qualche minuto prima della mezzanotte mi collegavo con i colleghi delle testate siciliane (Giornale di Sicilia, L’Ora, La Sicilia) e chiedevo come avrebbero impaginato il giornale del giorno dopo. In questo modo arricchivamo l’informazione della nostra radio, anticipavamo di fatto le notizie che sarebbero state lette il giorno dopo, e “educavamo” alla diversità dell’informazione.
I giornali enfatizzavano o “nascondevano” le notizie, e titoli assai diversi per raccontare la notizia, che talvolta, storpiavano, scientemente o consapevolmente. Gli ascoltatori gelesi, e non solo, apprendevano molto di più, si sarebbero abituati a riconoscere gli indirizzi editoriali di ogni testata.
Se mi sono soffermato su questo format, forse più del necessario, lo si deve al fatto che le radio hanno migliorato l’ascolto radiofonico con la loro creatività, e questo merito gli va attribuito anche quando, non a torto, si manifesta un legittimo dissenso sulla illiberalità dei siti – radiofonici, digitali, televisivi ecc – oggi nella rete.
Per circa un mese non successe niente, Radio Gela ricevette la visita dell’Escopost, la polizia postale e tutto sembrava finire lì. Ci venne dato il tempo, così, di fidelizzare gli ascoltatori e di trasformare la novità dell’etere in un successo indescrivibile. Nello spazio dedicato agli interventi esterni, nella mattinata, i cittadini chiamavano per lamentare un disservizio o discutere sugli eventi del giorno. Ricordate quel programma radiofonico, una mosca bianca nell’etere, “Chiamate Roma 31-31”.
Ebbene, lo spazio aperto gelese divenne una palestra di democrazia: microfono aperto a chiunque, senza alcun bisogno di spallate. Ci ascoltavano in tanti, a casa, sul posto di lavoro, ovunque.
I problemi arrivarono presto. L’Escopost fece il suo rapporto, e non avrebbe potuto fare diversamente, e Radio Gela divenne una vicenda giudiziaria. Vennero messi i sigilli. Tornò il silenzio, e venne sopportato male. In poche ore spontanei gazebo nel centro cittadino raccolsero migliaia di firme di cittadino che chiedevano la riapertura dell’emittente. Radio Gela era divenuta patrimonio della città.
Mi venne richiesto dalla polizia postale chi fosse il responsabile, chi avesse installato le antenne e tutto il resto. Ben quattro, o cinque reati. Naturalmente, come responsabile dei notiziari, sarei comunque stato il maggiore indiziato. Sicché scelsi di non coinvolgere altri nella vicenda, facendo arrabbiare il mago, Tano Patti, che non giudicò la scelta corretta.
Si dedicava attenzione, piuttosto, all’istruzione dell’indagine da parte dell’autorità giudiziaria. Non ero affatto preoccupato, e come facessi a non esserlo me lo domando ancora ora. Quei quattro reati mi avrebbero condotto diritto in galera se il giudice avesse preso alla lettera le norme in materie.
Confidammo sul pretore del tempo, del quale purtroppo non ricordo il nome. So soltanto che era una giovane, forse alle prime armi. La sua decisione ci fece tirare un sospiro di sollievo, la radio tornò a fare sentire la sua voce, e le carte furono mandate alla Corte Costituzionale. Il pretore ritenne che la legge vigente non rispettasse uno dei principi non negoziabili della Carta, il diritto di ogni cittadino ad esprimere le proprie opinioni, sempre e ovunque.
Radio Gela, insieme a poche altre emittenti radiofoniche, forzarono la legge, grazie anche a un magistrato intelligente, ed abbatterono il monopolio radiotelevisivo della Rai. Avevamo scosso l’albero, i frutti li avrebbero raccolti però i grandi tycoon privati, a cominciare da Silvio Berlusconi.
No, non sono pentito, né alcun altro si è pentito. Radio Gela non ha cambiato la mia vita, né quella dei miei amici, protagonisti di questa avventura, è stata una stagione speciale, per quanto mi riguarda la più gratificante.
Chiudo qui, perché altrimenti mi commuovo. C’è infatti ancora tanto da raccontare. Ma non mi tiro indietro, prometto di ritornare sull’avventura di Radio Gela. Con fatti ed aneddoti interessanti.
Salvatore Parlagreco
Come, quando e dove nasce
Come idea nasce nell’agosto 1975, in un afoso pomeriggio d’estate, a casa di Emanuele Tuccio, a Villaggio Aldisio. Quel pomeriggio stava cazzeggiando con Ciccio Caccamo (nella foto con Pepè Pellizzoni e Nuccio Mulè), quando questi tirò fuori una rivista di musica e spettacolo, GONG.
Aveva appena letto un servizio sulle radio libere. Disse a Tuccio, “perché non fondiamo una radio?”. I due si diedero subito da fare, coinvolgendo un terzo soggetto con competenze specifiche in campo radio-elettronico.
La scelta cadde su Gaetano Patti. Tutti e tre fecero un inventario su cosa occorresse per avviare le prime trasmissioni. Trovarono in una ditta specializzata di Milano quello che intanto occorreva per irradiare il segnale. Per il resto, ognuno portò da casa dischi, giradischi, magnetofono e quant’altro.
I tre si posero subito il problema a chi affidare la parte giornalistica.
La scelta cadde su Salvatore Parlagreco, all’epoca docente di lingue e corrispondente del Giornale di Sicilia. Di Radio Gela Parlagreco fu il primo direttore.
Si prese in affitto un miniappartamento in vico Parini, traversa di via Navarra, da dove – si è già nella settimana tra Natale 1975 e Capodanno 1976 – per la prima volta venne irradiato il messaggio “Radio Gela stereo, 102 e 5 Megahertz, in modulazione di frequenza”.
Si cimentarono in tanti davanti al microfono, con emozione mai provata. A tutti tremava la voce. Quel messaggio, un vero e proprio tormentone per alcune settimane, segnò l’inizio della storia.
Quando partirono le trasmissioni vere (notiziari e programmi sportivi), sposarono il progetto altri collaboratori.
(r. c.)