Una premessa necessaria. Anzi, una domanda, che mi fanno e che faccio a me stesso: che cosa giustifica questa sregolata sequela di “ritratti” partigiani sul Corriere di Gela?
Sono medaglie al merito, attestati di buona condotta, tasselli di una storia ancora non scritta, romantiche passeggiate nel passato? La risposta non ce l’ho. O meglio, la risposta potrebbe trovarsi in una osservazione, assai impegnativa, di Italo Calvino, contenuta in un suo articolo scritto per il Corriere della Sera il 10 agosto 1975: “La memoria conta veramente – per gli individui, la collettività, le civiltà – solo se si tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza dimenticare quel che si voleva fare, di diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare.”
Il ricordo di ciò che è stato, ci proietta su ciò che sarà. Ciò che è stato, ha avuto dei protagonisti. Se siamo quello che siamo, lo dobbiamo a loro, nel bene o nel male.
“Da bambino se volevo vedere mio padre sapevo che lui non era mai a casa ma in quell’enorme palazzo bianco che chiamavano municipio. Il resto del tempo lo passò nel suo studio legale o nella scuola in cui era docente. Mi ha insegnato ad amare i libri della sua biblioteca, la storia millenaria della nostra Sicilia era il nostro ricorrente argomento di dialogo. Solo in parte è riuscito a trasmettermi la passione per la politica.”
Giuseppe, figlio di Aldo Clementino ricordò così suo padre, deceduto all’età di 82 anni, dopo una lunga malattia. In questa breve nota c’è quasi tutto su un uomo politico ed un cittadino di Gela che ha avuto un ruolo importante nella sua città. E’ stato consigliere comunale per quasi trenta anni, sindaco per circa quattro anni, candidato ad elezioni politiche regionali e nazionali, influente dirigente della Dc. La sua vocazione politica nasce fra le file dell’Azione Cattolica, nella Fuci ed infine nelle Acli, dove s’incontrò con altri due giovani della Dc. A loro sarebbe toccato di sostituire, con fatica e molti ostacoli, la nomenclatura del partito di maggioranza, governato da Salvatore Aldisio.
Vitale e Clementino hanno amministrato Gela negli anni che precedettero la guerra di mafia. Una scia di sangue, quindici anni duri, difficili, che impedirono, per molti versi, alle autorità amministrative, di svolgere con serenità le loro funzioni. La mafia da un lato, la fabbrica dall’altro, si spartivano le scelte di maggior peso, e non perché ci fosse una sorta di alleanza con il potere politico, ma per la quantità degli affari gestiti all’esterno delle istituzioni e per un mercato del lavoro lontano dalle scelte del massimo consesso civico e delle sue giunte. Il comune contava poco, i singoli influenti leader politici avevano il privilegio di suggerire, raccomandare, segnalare ecc. C’era chi non vedeva e non sentiva, mentre la speculazione fondiaria e l’abuso imperversavano, e chi, sull’altare del consenso politico e del familismo atavico, giustificava le trasgressioni della “povera gente”, vittime a loro volta di cinici colletti bianchi e spregiudicati mediatori d’affari .
I giovani della Dc non avevano le leve del potere, subivano, talvolta tacevano o facevano la voce grossa senza essere ascoltati da alcuno. La militanza politica in un partito, composito e complesso come la Dc, pretendeva compromessi. Non che altrove fossero rose e fiori, tutt’altro, ma la Dc governava, e il governo non permette l’attraversamento del guado, restando indenni da responsabilità. Uomini politici intransigenti, dopo aver guadato il Rubicone, guadagnarono un’attitudine alla flessibilità.
Ricordo con favore i due anni vissuti accanto ad Aldo Clementino, sindaco. Fui il suo vice e spartivo con lui la fatica di governare una città già allora ingovernabile. In particolare, sperimentammo un’idea invero bizzarra: rendere pubblici i lavori della giunta municipale per obbedire ai doveri di trasparenza, che a quel tempo era una opzione nascente molto frequentata (e poco rispettata).
Organizzammo un meeting con gli amministratori del comuni del comprensorio, comuni che gravitavano su Gela e l’industria. “Gela provincia e bacino montano”, lo slogan urlato al Duce, durante la sua visita, aveva fatto il suo tempo. Non doveva essere il campanile a suscitare la promozione di un assetto territoriale diverso, ma la necessità di disporre di servizi pubblici migliori in un’area della Sicilia che dava un contributo notevole tanto alla bilancia commerciale del Paese, senza avere in cambio quasi nulla. La nascita del comprensorio, come lo chiamammo allora, “sognando” un’associazione spontanea di enti locali, doveva servire a farci stare meglio, e non ad issare la bandiera di Gela caput-mundi.
Questo è il contesto, tracciato su grandi linee, in cui Aldo Clementino ha svolto il suo ruolo, da consigliere, membro della giunta e sindaco. Sono testimone oculare della sua attività al vertice dell’amministrazione comunale. Ho maturato opinioni molto nette su Aldo, e spero davvero di non sbagliarmi. La politica, qualche volta, fa nascere amicizie, ed è il nostro caso.
Avevo fiducia in Clementino, lo stimavo. Era attento e competente, mai avventato. Subiva tante pressioni e tante sollecitazioni. Allora i partiti contavano ancora. Aldo talvolta annaspava, talaltra batteva i pugni sul tavolo, ed in qualche circostanza urlava. Come facesse a resistere a tutto questo, me lo chiedo ancora oggi. La sua dedizione al lavoro era ammirevole quanto la sua volontà di resistere alle clientele. Penso che la sua formazione politica e sociale, nell’Azione cattolica, la Fuci e le Acli, lo abbiano tenuto lontano, per quanto possibile, dalle camarille. Eppure, dovette abbandonare il consiglio comunale, come tutti i suoi colleghi, per il contagio mafioso. Le cosche, sospettarono Prefetto e Questore, aveva infiltrato il virus nella burocrazia comunale.
Che il comune fosse infestato da malandrini, tuttavia, lo constatai alcuni anni dopo, quando accettai l’incarico di vicesindaco, propostomi da Franco Gallo, eletto sindaco a suffragio diretto. Esprimere un giudizio così duro sulla burocrazia comunale sarebbe ingiusto, ho conosciuto persone di valore, uomini e donne efficienti e di tutto rispetto. E tuttavia la mia esperienza fu molto faticosa, perché ebbi a confrontarmi con ambienti ostili e minacciosi.
Aldo Clementino fece il pieno di consensi elettorali alle amministrative quando venne eletto sindaco dal consiglio comunale (l’elezione diretta non c’era ancora). Le sue due candidature – all’Ars e alla Camera dei Deputati – non furono coronate da successo. Gela aveva un elettorato ubbidiente ai vassalli dei capicorrente Dc. La raccolta del consenso avveniva su basi tribali, e non ammetteva sforamenti.
La “gelesità”, insomma non contava niente, contava la cordata. L’elettore, infatti, alle politiche poteva esprimere, nel collegio siciliano, fino a quattro preferenze. Rimanere fuori dalla cordata, che “sommava” i voti dei clienti, significava sicura sconfitta. Credo che Aldo abbia sentito il rammarico di quegli insuccessi. Abbandonò quando sentì che la sua Gela non c’era più. Il mio trasferimento a Palermo non mi ha permesso di mantenere i rapporti con lui e non conosco perciò il resto della storia.
Qualcosa l’ho imparata anche da Aldo: si fa un torto al buonsenso quando si esprimono giudizi urbi et orbi su politica e “politicanti”. Ho conosciuto persone per bene e per… male ovunque, a prescindere dalle bandiere, fra le tribù politiche di ieri e di oggi, e nella cosiddetta società civile. La diversità ha arricchito le mie conoscenze, mi ha reso migliore e mi ha permesso di confidare senza pregiudizio sulle persone che di volta in volta ho incontrato.