«Mio padre è stato un uomo bello e aperto, curioso e ironico, saggio di una saggezza ricca di principi e leggi morali.
L'uomo più libero dai pregiudizi che ho conosciuto, accogliente per sua natura… ha amato la vita e ci ha educato alla libertà, al coraggio, alla ricerca della felicità. Fu un comunista, immerso nella sua realtà, portatore di idee e visioni e un giovane protagonista delle battaglie migliori per il suo paese».
Così Marina Marino, figlia di Totò Marino – l’ingegnere Marino per tutti – ricordò suo padre, dopo la scomparsa, il 6 settembre 2018, all’età di 81 anni.
C’è tutto nel ritratto che Marina ha fatto del padre. Ciò che provo ad aggiungere mi riguarda personalmente. Totò Marino è stato un amico fraterno ed un maestro.
La mia, di Totò Marino, dunque, è una testimonianza, non solo un ricordo. Da lui ho imparato ad affrontare la politica con rigore e la vita con una benevola disposizione verso il prossimo, fatto da persone per bene fino a prova contraria, e non viceversa. Insegnava a vivere, portando rispetto al prossimo, si comportava allo stesso modo a casa propria e nel partito, a scuola o in consiglio comunale.
Mai irritato oltremisura, mai aggressivo, mai un insulto, una parola “sbagliata”, un giudizio che sapesse di pregiudizio, un gesto che fosse scomposto o inopportuno. Aveva sempre il sorriso sulle labbra e gli occhi quieti di un uomo conciliato con se stesso. Non è che esercitasse su di sé un controllo, o soffrisse della rinuncia a ribattere sguainando la spada. Nessuna rinuncia, era fatto così e basta. Penso che non solo le parole, i gesti, ma anche i pensieri lo aiutassero a non rinnegare nemmeno per un istante la sua natura.
Non faceva lezioni di morale e non si dipingeva come uno che si ergesse a giudicare il prossimo. Lo stile di vita, così diverso, poteva essere mal compreso. Dolcezza e fermezza non sono conciliabili nel sentire comune. E allora la prima fa sospettare la debolezza o l’indifferenza, se non addirittura la furbizia. Bisognava perciò imparare a conoscerlo per non farsi sorprendere dai sospetti.
Degli uomini come lui non si dimentica mai niente, i ricordi sono quasi sempre legati a momenti importanti della vita. Negli anni in cui ho abitato a Gela, è stato un consigliere discreto, un punto di riferimento saldo, un amico cui confidare benessere e malessere. La sua militanza nel Pci, e la mia nel Psi di un tempo, non ci ha mai trovato su fronti diversi.
Anche nelle questioni in cui i nostri partiti di riferimento stavano l’un contro l’altro armati, la nostra visione della realtà era la stessa. E di ciò non mi sono mai meravigliato. Ci siamo trovati dalla stessa parte quando la città di Gela fu aggredita dall’abuso edilizio, fenomeno che l’avrebbe resa inabitabile e avrebbe creato diseguaglianze che ancora oggi sono davanti agli occhi di tutti.
Totò cercava disperatamente di indurre il Consiglio comunale, e naturalmente, il suo partito, a dare alla città quel che serviva per una crescita ordinata ed una urbanizzazione a misura d’uomo, attraverso gli strumenti della pianificazione. Per quelli si batteva come un leone.
Occorreva “disegnare” la città e darle norme uguali per tutti. Ma la città era in mano alla speculazione fondiaria, grazie alla quale si arricchivano i colletti bianchi ed una agguerrita falange di mediatori e traffichini. Un mercato delle vacche che regalava a migliaia di gelesi fette di città invivibili, sprovviste di servizi, e creava le condizioni ideali per trasformarla nel Far West. Ferite che ancora non si sono rimarginate.
I partiti stavano a guardare, o addirittura proteggevano l’area dell’abuso, che veniva perfino spiegato con una indulgenza a fin di bene. Gela cresceva in alcuni quartieri periferici sul fango, senza acqua né energia elettrica, il popolo degli abusivi diventava un esercito di voti elettorali inattaccabile.
Grazie ad una espressione furba e ipocrita – "l'abuso di necessità" – dettata dal bisogno di non perdere il consenso, la speculazione fondiaria poté godere della protezione dei colletti bianchi, e quindi dei partiti di governo della città, e dell’opposizione che si schierava a favore di chi non aveva casa ed era costretto a trasgredire la legge. Una costrizione organizzata, tuttavia, tanto è vero che Gela non riusciva ad utilizzare nemmeno i finanziamenti per l’edilizia economica e popolare a causa dell’abuso selvaggio nelle aree destinate ad essa.
Per Totò Marino era una battaglia di civiltà e divenne il momento centrale della sua militanza politica. A conclusione dei lavori del consiglio comunale di Gela, era accolto con insulti dalle avanguardie dell’abuso, pilotate dalle cosche del malaffare e della speculazione. Una scena che si ripeteva, Totò Marino, capogruppo consiliare, attraversava il drappello degli insolenti con il suo sorriso serafico.
Nel Pci si trovò isolato, o quasi. Paolo La Rosa, ex sindaco di Gela, gli suggerì di cercare una intesa, ma lui non indietreggiò di una virgola. L’abuso andava combattuto, la pianificazione urbanistica aiutata a decollare. La contrapposizione divenne insostenibile, prevalsero nel Pci le buone ragioni dell’abuso di necessità.
E alla vigilia del rinnovo del consiglio, i dirigenti del Pci di Gela gli anticiparono che quel ruolo di capogruppo, in futuro, non avrebbe potuto averlo. Si sarebbe potuto candidare, ma poteva aspirare ad un seggio in consiglio, nient’altro.
Totò Marino decise allora di lasciare il Pci gelese e tornare nella sua Mazzarino, dove riprese con la solita lena le sue battaglie politiche. La militanza, tuttavia, avrebbe dovuto essere compatibile con la professione. Un’altra diversità, non di poco conto, perché il Pci si affidava ai cosiddetti funzionari. “Il mestiere non bisogna mai abbandonarlo, diceva l’ingegnere, altrimenti la militanza politica non è libera”. Rfiutò la candidatura al Senato per coerenza.
Quando Achille Occhetto alla Bolognina abiurò al vecchio Pci e fece nascere il Pds, Totò non volle aderire. Visse infatti quella svolta come un tradimento alla storia del partito ed ai suoi militanti. Ed una ragione c’era.
Totò apparteneva ad una famiglia di tradizioni socialiste, antifascista. Ogni volta che veniva in Sicilia un gerarca uno dei fratelli, Gaetano, veniva prelevato dalla polizia e trasferito in carcere dove avrebbe soggiornato per tutta la durata della visita.
La sua era una famiglia numerosa, sei fratelli ed una sorella, operai tutti quanti, con l’eccezione di Gaetano, un intellettuale fervente militante socialista, come il padre. Fratello di Antonella Marino, attivissima militante nel Pci di Mazzarino, e moglie di Francesco Renda, storico comunista, Totò era rimasto legato a quel simbolo ed a quella storia, che era anche la storia della sua famiglia.
Aveva condiviso la militanza con la sorella ed i suoi compagni di una vita: Filippo Siciliano, Totò La Marca e Gino Cardamone, docente alla Normale di Pisa. Quando Siciliano, La Marca e Paolo La Rosa finirono in carcere, per ribellismo, sulle spalle di Totò Marino cadde la guida del partito a Mazzarino. E questo spiega il suo saldo ancoramento al vecchio Pci.
Anche la vita professionale, al pari di quella politica, è stata intensa. Diresse i corsi tecnici dell’Istituto professionale di Stato, insegnò topografia presso l’istituto tecnico per geometri a Gela. Portano la sua firma i restauri architettonici di due complessi a Gela, l’ex Monastero delle Benedettine, trasformato poi in Ospedale, il complesso monumentale degli agostiniani di Piazza Salandra, e alcuni progetti delle cooperative edilizie a Macchitella.
A Mazzarino conservano ancora oggi il ricordo di un episodio rimasto nella storia politica della città. In occasione della campagna per il rinnovo del Consiglio comunale Totò Marino realizzò un treno di cartapesta, che denominò “il treno di Alessi”. Presidente della Regione, Giuseppe Alessi aveva promesso, senza mantenere, la realizzazione della stazione ferroviaria. Fu una festa, piuttosto che una manifestazione politica. Perfino il Maresciallo dei CC, in testa al corteo, non riuscì a trattenere le risate. Naturalmente, il Pci di Mazzarino fece il pieno di voti.
L’aneddoto non deve sorprendere, tuttavia. Totò era una persona di cuore, ma anche allegra, e amava l’ironia. Il suo grande amore era la Divina Commedia, della quale era capace di recitare i versi a memoria, e Giacomo Leopardi. Poche ore prima di andarsene, sereno come sempre, rivelò ai suoi cari che gli stavano accanto, che si sentiva felice, e perché non nutrissero dubbi, recitò l’Infinito di Giacomo Leopardi, dal primo all’ultimo verso.
“…: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.”
Fu l’ultimo regalo che riuscì a dare alla famiglia, che così poté conservarne un ricordo lieve e sereno. Si spense così come era vissuto. Conciliato con se stesso e con la vita.