Gela, vandea rossa, il giorno della rabbia

Gela, vandea rossa, il giorno della rabbia

Gela, 10 febbraio 1961. Monsignore sedette su una panca, a ridosso di una colonna guardando l’altare della navata centrale, che conservava sotto la pietra marmorea, in luogo del paliotto, un’urna di vetro riccamente decorata d’oro zecchino.

Dentro l’urna era rannicchiato il cristo del Venerdì Santo che, per le sue dimensioni ci stava stretto. L’altare era spoglio. Invece dell’odore d’incenso, attraverso la porticina della sacristia che conduceva al parcheggio delle carrozze, arrivava il fetore di stallatico. Il guanciale sul quale il Cristo avrebbe dovuto posare il capo, scivolato dalla nicchia, copriva il sacro volto. Niente, proprio niente, sembrava al posto giusto. Monsignore era turbato ed ebbe un fosco presentimento. La scomparsa di don Peppino Navarra era il suo cruccio, gli era rimasta in testa, manco fosse un parente stretto.

Le spoglie  avevano raggiunto il sagrato della Matrice tra ali di folla commossa. Il barbiere Ciccio Città, che teneva sulle spalle il feretro con altri tre compagni, si fermò. Lo stesso fece Ignazio Mauro che lo precedeva con la bandiera rossa . Vincenzo Giunta, professore di filosofia ed ex comunista intravide, non si sa come, che da uno dei portoncini semi chiusi monsignore spiava gli eventi. Un paio di poliziotti corsero verso il porticato grande, seguiti subito dal professore e da Biagio Presti. Si fece il silenzio, quasi fosse il Venerdì Santo. Attraverso la porta socchiusa Giunta e Presti parlarono con monsignore. «Ancora una volta le chiediamo di ammettere in chiesa la salma di Giuseppe Navarra».

«Ho già pregato per lui», rispose monsignore. E aggiunse con tono grave: «Non possumus». 

Il professore rivolto a Biagio Presti ruppe ogni indugio: «Non c’è niente da fare», disse. Biagio Presti fece un segno del capo verso Ciccio Città e gli altri, erano tutti inchiodati sull’asfalto. Qualcuno gridò: «Non vogliono farlo entrare». E dalla folla partirono grida e imprecazioni. Il feretro di don Peppino attraversò cento braccia, se lo passavano l’un l’altro, volò in pochi istanti dal Corso Vittorio Emanuele alla scalinata della Matrice in piazza Umberto. Quelli che l’ebbero per ultimi usarono il feretro per forzare il porticato grande. Dietro di loro entrarono in chiesa a migliaia. La cassa fu adagiata sul pavimento di marmo accanto all’altare maggiore.

La folla reclamò il catafalco, secondo l’usanza. Piraino, autorevole maestro elementare e cattolico praticante, urlò: «Farisei, vogliamo giustizia». «Stanno per fasciare tutto», disse il fattore dei Navarra a donna Teresa, la moglie di Peppino Navarra. Donna Teresa si precipitò in sacristia, dove monsignore nel frattempo si era barricato. Quando il prelato vide la donna prese l’incenso e il rosario senza indugio, raggiunse il feretro attraverso l’abside, risalì con un salto i tre gradini dell’altare maggiore, alzò le mani verso l’alto con gesto benedicente. Poi recitò il Pater Noster ad alta voce. E la folla lo recitò insieme a lui. La bandiera rossa fu ammainata.

Ma la rabbia continuava a ribollire nell’animo di una sparuta minoranza, tanto che il professore, rimasto sulla soglia del porticato grande, sentì il bisogno di calmare gli animi. «I farisei restano dove sono, non abbiamo l’autorità per cacciarli», disse risoluto e afferrò l’asta della bandiera rossa. Qualcuno gli oppose resistenza. Anche la bandiera rossa doveva essere ammessa in Matrice. «E’ il simbolo della nostra fede», spiegò qualcuno con tono accorato.

«Lasciamola fuori, almeno quella», gridò un altro.

«Allora resto fuori anche io…», replicò chi gli era vicino. Il drappello dei contestatori tentò di strappare la bandiera al professore. «Daccela con le buone», disse uno. 

Alla fine tornò la calma, il professore ebbe ragione sugli altri. 

Fuori dalla Matrice si erano formati dei capannelli, si discuteva animatamente. E c’era chi dissentiva ad alta voce. La bandiera rossa dovevano farla entrare assieme al feretro. E i parrini avrebbero avuto quello che si meritavano. Don Peppino andava vendicato.

I compagni si sono calate le braghe senza saperlo, avevano consegnato ai parrini la giustizia terrena e la giustizia divina. Dentro il capannello degli intellettuali si parlava invece di Dante e di Guido di Montefeltro: «Non mi portar, non mi far torto  che assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme possi per la contraddizione che nol consente», recitò uno.

Intanto la folla sciamava lungo il sagrato della Matrice. «Da vivi ci sputate – osservò una donna di mezza età, ben vestita e con un capello in testa – e da morti li volete ad ogni costo».

Accadevano cose strane. Don Peppino, che in vita era stato il simbolo della mitezza, era divenuto – irrimediabilmente morto – l’ispiratore dell’unica ribellione contro la Chiesa a Gela. 

Qualche ora dopo le esequie funebri, il Professore si recò nella sezione socialista, dove trovò i compagni che lo avevano spalleggiato, quasi che s’avessero dato appuntamento. Si guardò attorno e notò che erano tornati al loro posto sulla parete Turati, Marx e Pietro Nenni. Erano stati sostituiti da Don Peppino Navarra con i ritratti di Santa Cecilia, patrona dei musicisti, e il Crocifisso, caro alla marineria gelese.

Il vecchio organigramma del partito era stato ripristinato a tamburo battente dal fattorino della sezione, che aveva naso per le novità e non si era mai lasciato scappare le opportunità che ogni cosa nuova concede a chi sa vedere al di là del proprio naso. Il cambio di guardia alla parete, tuttavia, gliel’aveva suggerito anche il bisogno di evitare che avessero a ripetersi nel momento meno adatto le spiritosaggini dei compagni, che fra un tressette e l’altro, in mancanza di meglio, se la prendevano coi Santa Cecilia. 

Quando videro il Professore, i reduci della rivolta si alzarono in segno di rispetto, e fecero la faccia delle grandi occasioni, impettiti e seriosi. Il Professore apprezzò e sfilò dalla tasca della giacca con la cura di chi maneggia le reliquie di un santo i fogli in carta vergatina dell’elogio funebre, che avrebbe voluto declamare in Chiesa. Fra la sorpresa generale, invece che l’elogio, lesse una lettera indirizzata a Don Peppino da Monsignore. Era la prova della doppiezza di Monsignore.

“La ringrazio per tutte le sudate fatiche che ha generosamente prodigato in onore della Vergine Santa, nostra celeste patrona, organizzando, dirigendo e curando, anche nei minimi particolari,  la di Lei festa…E come Maria SS.dell’Alemanna Le ha dato tanta forza e coraggio da superare quasi ogni capacità umana in un’organizzazione così gigantesca, così la medesima Vergine conceda a Lei e alla Sua famiglia ogni altro bene che il cuore desidera. Il plauso del popolo Le sia anche di conforto e di soddisfazione, ma i doni di maria Santissima saranno certo infinitamente superiori…”. 

Finita la lettura guardò la platea, concesse un breve sorriso, un segno di compassione per la prosa di Monsignore e per la ipocrisia dell’uomo di fede. Frugò sull’altra tasca della giacca il testo dell’elogio funebre . Raramente si fidava dei suoi stessi scritti, preferiva assecondare pensieri, piuttosto che l’inchiostro sulla carta.  “I farisei”, iniziò con un tono greve ,”sono stati costretti a recitare la parte dei farisei, e noi a interpretare la giustizia secondo i canoni della Chiesa.

Ecco il miracolo di Don Peppino Navarra, il miracolo regalato alla sua vita linda dell’uomo giusto. Invidio la sua morte….”. Si concesse una sapiente pausa. “Don Peppino, riprese, nacque filantropo e cristiano, e trascorse la sua giornata terrena nello sforzo costante di alleviare le sofferenze altrui, di agevolare il cammino dell’avvenire ai giovani animati dalla buona volontà... Siedono le muse custodi dei sepolcri….”

A questo punto ebbe un moto di stizza. Quelle parole non avevano niente a che fare con la sua natura, radicale e corriva. Poggiò i fogli dell’elogio sul tavolo che gli stava accanto e riprese, stavolta con enfasi. “Che cosa fu per lui il socialismo?” ricominciò, scrutando i volti dei compagni in prima fila, che si sentirono chiamati in causa. “non certamente la convulsa e supercritica dottrina del materialismo storico.

Don Peppino non aveva l’animo disposto alla critica e alla lotta politica, strenua ed implacabile che la critica socialista comporta, ma alla comprensione e al perdono. Se fosse nato mille anni prima, quando il socialismo era un’assurda utopia, e non una realtà vivente ed impellente, Don Peppino Navarra non avrebbe potuto neppure allora impedirsi di essere socialista, perché nel socialismo egli vide uno sforzo di elevazione materiale e morale.

E’ per questa ragione che ha potuto conciliarlo col cristianesimo. Un’equazione che a taluni sembra difficile, ma che a lui fu naturale. Altri hanno ritenuto di non poter spendere una parola per chiedere a Dio di aprire le porte del cielo a quest’anima angelica e sublime, che sta per giungervi. Che Iddio li perdoni. Don Peppino sta già pregando per la loro salvezza!

E’ un’ingiustissima legge umana quella che contende la soglia del Cielo ad anime come questa… Ma è da credere che esse entrino ugualmente e trionfalmente a dispetto del tentativo satanico di impedirlo. E quando giungeranno davanti alla infinita misericordia di Dio torneranno ancora ad asserire che la causa del socialismo è la causa del Signore”

Concluso l’elogio, si lasciò cadere sulla sedia. Era provato ma felice. La Vandea rossa, pensò, aveva fatto la storia.