Benedette scartoffie, ci riscaldano il cuore. Cerchi qualcosa e t’imbatti in una cartolina illustrata, una lettera, un disegno, un documento che ti riporta indietro.
Sono macchine del tempo che obbediscono alla casualità. Con mitezza, senza traumi. Sono un invito a ricordare, un invito cui non è possibile sottrarsi. Trovi un “reperto”, un cimelio dell’altra vita che hai vissuto e ti fai domande su domande, socchiudi gli occhi e intraprendi un breve viaggio al termine del quale ti risvegli con l’animo pacificato. Non è come sfogliare l’album di fotografie: le immagini sono unpugno nello stomaco, procurano un tuffo al cuore, obbligano a misurarti con la realtà, ti aggrediscono, non ti fanno respirare, bene che vada suscitano malinconia, rammarico, lasciano l’amaro in bocca.
Fra le scartoffie ho trovato le caricature di Salvatore Solito, farmacista e pittore di Gela, raccolte diligentemente anni fa da Gino Alabiso, giornalista e maestro elementare, corrispondente da Gela del quotidiano La Sicilia. Un fascicolo senza pretese, presentato sotto l’egida editoriale del Corriere di Gela. Sono ben 79 caricature, oggi li chiamerebbero vignette. Una delle caricature è dedicata a un personaggio assai popolare a Gela, conosciuto come Nino ‘Mpopa (nella foto).
(Ninu ‘mpopa è una ‘ngiuria, probabilmente forma dialettale tronca di ‘mpupari, agghindarsi come un pupo).
Siamo nel decimo anno “Ante Petrolchimicum Natum”, 1950 o giù di lì. Lo sbarco degli americani non è stato ancora rimosso, c’è chi si fa il segno della croce al pensiero di quel che sarebbe potuto accadere, e accende un cero alla Madonna per lo scampato pericolo. Sarebbe bastato che da una di quelle mille navi comparse sul golfo la notte fra il 9 e il 10 luglio sparassero con un cannone alzo zero e Gela sarebbe stata ridotta in un cumulo di rovine.
Gela è un paesone racchiuso in se stesso, ma vive un nuovo momento di gloria, sette anni dopo lo sbarco degli americani sulla costa, grazie al ritrovamento delle mura timoleontee a Caposoprano. I gelesi hanno il petto gonfio d’orgoglio, le vestigia del passato riscattano dalla anonima quotidianità.
Nino ‘Mpopa, dunque. La caricatura del farmacista Solito è scarna, pochi tratti di china, ma quanto basta: Nino ha una coppola in testa; la coppola nasconde la fronte, indossa una giacchetta corta e buffa, abbottonata come capita; i pantaloni anch’essi corti, tiene la mano sinistra in tasca, e tra le dita della mano destra c’è un mozzicone di sigaretta ancora fumante. La testa è ingobbita, la bocca spalancata, mette in mostra i denti.
E’ proprio come me lo ricordo, immobile e schivo. Conservo una memoria nitida. Un personaggio amabile, ma non di cervello fino. Parlava solo a se stesso a alta voce quando qualcuno gli rivolgeva lo sguardo, o gli si avvicinava. Si poteva passargli accanto e trascurarlo, in quel caso se ne starebbe stato zitto, accennando a uno sguardo. Quando lo ignoravano Nino taceva, se si accorgevano di lui esternava desiderio, ma parlando a se stesso, nessuno si sentiva chiamato in causa. “Nino su pigghiassi un caffè”, diceva. Chi l’ascoltava, chiunque fosse, non ci pensava sopra due volte, lo accompagnava al bar e gli pagava il caffè.
L’altro desiderio ricorrente era la sigaretta. “A Nino ci piacesse na sigaretta”, diceva, gli occhi bassi, a guardarsi le mani vuote e le dita strette. Veniva accontentato, una sigaretta non si nega a nessuno, figuriamoci al buon Nino. Ricevuta la sigaretta, si gratificava usando sempre la stessa espressione. “Nino è cosa bona, e tutti u vonu beni”. Gli vogliono bene tutti. Ed era davvero così, nessuno lo scherniva.
Da Nino nessuna riverenza, nessun disappunto, né sguardi compiaciuti verso i generosi benefattori. Teneva piuttosto gli occhi socchiusi, i lineamenti a riposo. Ottenuta la sigaretta eliminava ogni altra cosa dal suo campo visivo; ingaggiava con essa una sorta di sfida o una danza, o qualcosa di simile. La sigaretta gli suscitava un piacere che non intendeva spartire con alcuno. Inspirava profondamente ed altrettanto profondamente espirava, osservando fissamente la sigaretta mano a mano che bruciava e si accorciava. Qualche volta osservava le nuvole di fumo che mandava verso l’alto. Ma era solo un attimo, poi tornava a “conversare” con la sigaretta, in silenzio, lo sguardo compiaciuto.
Il caffè era l’altro rito. Lo beveva con un gesto affettato di insospettabile eleganza, pareva che fosse stato educato ad osservare una specie di galateo fatto di movimenti misurati. Afferrava il manico della tazzina con due dita, avendo cura che il dito medio non toccasse la tazzina per non bruciarsi, tenendo il mignolo rivolto verso l’alto, come allora usavano fare i signori. La tazzina in bocca, bevendo una piccola quantità di caffè. La tazzina restava come sospesa in aria; non la posava, preferiva tenerla saldamente stretta alle due dita.
Ho assistito a quel rito più volte ed ogni volta ne rimanevo incuriosito. Grazie al caffè, Nino si sentiva a suo agio e manifestava la sua intelligenza per i piccoli piaceri dell’uomo. Era il suo unico modo di manifestarsi. Pareva avere coscienza. Il sorriso, unico atteggiamento che concedeva alle emozioni, non era mai malizioso, furbo, bramoso. O gioviale, elusivo. Era statico, stanziale, magari autocompiaciuto. Un lieve niente, che talvolta riusciva ad essere evocativo. Non credo che conoscesse la tristezza o la gioia.
In questo niente ritrovava un barlume di coscienza? Non stringeva né corrugava gli occhi. Sapeva solo relazionarsi con se stesso, e basta. E’ un miracolo, quindi, che riuscisse ad avere tanta popolarità, suscitata dalla “bontà” e dalla mitezza.
Il suo vero nome non lo sapeva nessuno. Era “Nino” e basta. Povero e solo, accolto in un ospizio di beneficienza, vestiva con decoro, ma portava malamente ogni cosa, qualunque fosse. Di sicuro qualcuno lo accudiva, ma non si è mai saputo chi fosse.
Finché visse potè contare sui paesani, quale che fosse la loro indole e il livello sociale. Ladri o benefattori, quasi tutti gli riservavano attenzioni. Le rare volte in cui la sigaretta non arrivava, o il caffè, non se ne lamentava. Semmai ripeteva la solita filastrocca, che Nino era un bravu carusu.
Come si faceva a non volergli bene?
Quando se ne andò aveva 57 anni e Gela gli rese onore. Qualcuno fece una colletta, che permise una dignitosa sepoltura nel cimitero di Farello, dove oggi si trova e viene ricordato, magari distrattamente, da chi passa davanti al suo marmo, dove si può leggere il suo nome e cognome. Finalmente.
Gela con Nino si comportò con civiltà e manifestò una rara sensibilità. Negli anni che precedono l’arrivo dell’industria Gela è un teatro di cartone. Un paesone di separati in casa. La comunità cittadina da un lato e la periferia, “la Corea”, situata ad est. Sul Corso Vittorio Emanuele, all’altezza della Villa Garibaldi correva il 38esimo parallelo. Nino, naturalmente, frequentava il centro storico, ma rifuggiva dalla piazza Umberto, sempre affollata. Ci si conosceva tutti.
Si fosse spettatori o attori, si salisse sul palcoscenico, occupando un ruolo sociale o istituzionale, si rimanesse seduti in platea, cambiava poco, ognuno recitava la parte che gli era stata assegnata da una realtà immobile. Anche Nino, invero, recitava la sua parte, ma senza saperlo. Perciò era se stesso. Vero e lindo. Sempre. Perciò credibile e benvoluto.