Vista con l’ottica delle multinazionali che spogliano l’Amazzonia, l’industria del legno nelle aree povere non è solo fonte di guadagno, ma anche un’occasione di sviluppo delle popolazioni locali.
Una visione della realtà aberrante quanto volete, ma utilizzata con convinzione e protervia. La politica dei poli di sviluppo, nata in Italia negli anni Sessanta, ebbe tanti cantori delle sue virtù, promossa con buone intenzioni da alcuni e con il cinismo dei disboscatori da altri, qualunque sia la motivazione, lo stato delle cose non cambia, perché essa si è rivelata un cattivo affare per il Mezzogiorno d’Italia, ridotto a discarica dei rifiuti industriali più inquinanti, per pubblica e pressoché unanime ammissione.
Se i destinatari di questo regalo, consegnato con il fiocco rosa e una banda musicale, avessero potuto conoscerne la natura infida non sarebbe accaduto un bel niente, perché l’avrebbero ugualmente accettato, chiudendo tutti e due gli occhi. La ragione è semplice, seppur tragica: le popolazioni del sud avevano bisogno di lavoro. O ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Il coltello dalla parte del manico l’hanno avuto coloro che hanno confezionato il dono, non loro, i “fortunati” destinatari.
Spogliare le foreste amazzoniche, a differenza delle spoliazioni di casa nostra, è stato, ed è ancora, non solo una selvaggia aggressione alla natura, ma anche una insana violenza rivolta all’intero pianeta. Ed è grazie a questo che il mondo si è ribellato, e continua a farlo, senza peraltro ottenere un bel niente. Nel nostro caso, il polo di sviluppo di Gela, il fumus del danno – all’ambiente ed alle persone – non poteva reclutare il dissenso esterno al territorio interessato, essendo esso circoscritto alla comunità coinvolta. Fuori dal comprensorio di Gela, in più, il consenso, al pari di Gela, sarebbe stato pressoché unanime per le ragioni sopra ricordate.
Alla resa dei conti, Gela ha perso solo il boschetto, Bulala, cancellato per ospitare la fabbrica, il lago Biviere, prestato alla fabbrica, le coste, devastate dagli scarichi industriali, e l’aria pulita a causa dei fumi tossici. Niente rispetto al polmone del pianeta, l’Amazzonia.
Quali menti fervide hanno pianificato la svolta meridionalista, inaugurata dai poli di sviluppo? Nata come corollario succedaneo della programmazione economica e braccio operativo degli Interventi straordinari del Mezzogiorno, la politica dei poli di sviluppo fu presentata come il primo concreto tentativo di inserire il Sud nel circuito economico nazionale. Non avrebbe risolto completamente squilibri e diseguaglianze, ma avrebbe messo il primo tassello di un percorso virtuoso. A crederci non sono stati solo i destinatari finali ma, e qui le perplessità sono legittime, fior di economisti e meridionalisti che hanno sposato la causa. A giudicare dall’enfasi con cui vennero concepiti e messi in cantiere, i poli di sviluppo, furono attesi come una palingenesi, la soluzione di mali antichi e recenti. E invece si trattava di un espediente, una “trovata”, perfino cinica, al fine di destinare al Sud l’industria chimica primaria.
Sto facendo di tutta l’erba un fascio, è ingiusto e poco saggio. Bisogna riconoscere, ahimè, che fra i credenti vanno annoverate persone per bene. Accettare quel che passava il governo avrebbe messo in moto meccanismi virtuosi.
Il brain storming degli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, plaudente e persuaso della bontà dei poli di sviluppo, collegati all’industria primaria ed alla raffinazione, credette fermamente nella necessità di afferrare l’opportunità, irripetibile, offerta dal petrolio che sgorgava copioso nella piana di Gela, per spazzare via vecchie trincee di resistenza ad ogni tentativo di spostare l’asse degli investimenti verso Sud.
Si doveva approfittare del petrolio per bonificare la parte del Paese meno fortunata, giudicata dai detrattori la palla al piede del Paese, con la sua sacca di infingardaggine, cattive abitudini e cultura mafiosa. Sull’altare di fini nobili, nacque il polo di sviluppo di Gela. E nessuno ebbe niente da obiettare, perché fu subito chiaro che non si trattava di beneficenza. Il Paese si sarebbe dotato finalmente di una politica energetica, svincolandosi da un antico vassallaggio. E sarebbe entrato a pieno titolo nel mercato delle fonti energetiche. Grazie a Gela, si usciva dal piccolo cabotaggio e si rompeva l’egemonia delle Grandi Compagnie petrolifere internazionali, che alternavano conflitti all’arma bianca a cartelli monopolistici.
Il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, non era soltanto un capitano d’industria avvertito e intraprendente, ma un eccezionale player nel gioco dei partiti. Il salotto buono degli industriali non riuscì ad arruolare alcuno schieramento politico: destra, centro e sinistra erano presidiati dagli uomini di Mattei. A ciascuno il suo, insomma, senza lasciare a piedi nessuno.
Il polo di sviluppo di Gela si avvalse anche della schiera di economisti infatuati della programmazione economica, cui venivano attribuite tante doti, prima fra tutte la opportunità di dismettere i cosiddetti finanziamenti a pioggia e drenare le spinte clientelari che durante il boom economico avevano avvantaggiato enormemente l’area del cosiddetto triangolo industriale, facendo retrocedere ancora di più il Sud.
Il petrolio di Gela servì la causa, la scoperta quanto il suo utilizzo ebbero rilevanza internazionale. Ma fu proprio questa enfasi, strumentale, a relegare Gela in un ruolo secondario. Contava la fabbrica, nient’altro. Non ci si preoccupò degli effetti che avrebbe provocato sulla comunità locale l’arrivo dell’industria. Lo Stato era l’Eni, e l’Eni era la fabbrica. Ad essa era affidato il compito di produrre utili, non di realizzare condotte fognarie, servizi pubblici, case, presidi di sicurezza, ospedali, scuole, indispensabili per reggere l’impatto dell’eccezionale immigrazione. Si è costruito un edificio senza dotarlo di scale di accesso.
A causa della prematura scomparsa di Mattei, Gela perse il padrino, il depositario della realtà, colui che aveva ben chiaro quanto sarebbe costato a Gela la politica petrolifera italiana inaugurata dall’Eni. Con Mattei vivente, sarebbe comunque cambiato poco. Il polo di sviluppo gelese è nato senza gambe, senza il coordinamento degli interventi in campo sociale, a cominciare dai servizi più elementari come la sicurezza, la scuola e la sanità.
L’esautoramento della comunità locale dalle decisioni “di sviluppo” non è tanto la conseguenza di una scelta, quanto dell’assenza di una programmazione coordinata e “pensata” dell’intervento. La grande fabbrica con il suo esercito di operai, tecnici, il suo indotto affollato fu immessa nella realtà locale senza alcun accorgimento, lasciando le cose come stavano, con una burocrazia provinciale vecchia di un secolo e mummificata dal fascismo e dal neofeudalesimo politico regionale, impegnato nella difesa delle baronie locali.
I tecnocrati dell’Eni mandati a Gela non potevano avere altro compito che quello di mantenere in equilibrio economico la fabbrica. Chi avrebbe dovuto occuparsi, dunque, degli interventi sul tessuto civile della città? I burocrati provinciali, ignari di tutto e aggrappati alle posizioni di potere (effimero, ma tale) conseguite? Il governo regionale, impegnato sulla trattativa per le royalties sull’estrazione del petrolio da assegnare alle casse regionali e null’altro? Le istituzioni locali – comune, Consorzio per il Nucleo industriale – sprovviste di risorse o spogliate di funzioni elementari? Il ministero per gli Interventi straordinari, impegnato a dotare il polo di sviluppo delle infrastrutture al servizio della fabbrica (porto isola, desalatore, canali di raffreddamento, centrale idroelettrica ecc.)? I partiti politici locali, costretti al vassallaggio del centralismo, che li privava di ogni potere? La cosiddetta società civile, impreparata ad affrontare questioni essenziali per il futuro della comunità, come la salute, la sicurezza, le nuove dinamiche economiche suscitate dall’industrializzazione?
Tutto sarebbe dovuto avvenire spontaneamente insomma, magari invocando la Provvidenza che, com’è noto, ha tante frecce al suo arco.
Quel che è successo a Gela non poteva che accadere, insomma. IL carattere “spontaneo” del modello di sviluppo processato a Gela è stato perfino enfatizzato dall’Eni nelle brochure promozionali. “Si può accettare”, leggo in un opuscolo ufficiale, “che l’industria degli idrocarburi diluisca i suoi mezzi tecnici e finanziari in interventi operativi non determinati dalla esclusiva valutazione delle esigenze aziendali”, ma “un’iniziativa in campo industriale è valida sul piano sociale e dello sviluppo nella misura in cui lo è sul piano economico”. Traduco: vi abbiamo portato la fabbrica e dato i posti di lavoro, il resto non ci compete. Che dire? Non è il gioco delle tre carte, ma poco ci manca.
E le aspettative, gli effetti moltiplicativi? Il carattere unico e irripetibile dell’insediamento petrolchimico, ad altissima intensità di capitali, automatizzato, dotato di un ciclo produttivo chiuso ed autosufficiente, non poteva offrire alcuna prospettiva “di sviluppo”.
Chi ha barato?