Percorro il viottolo che conduce alla Chiesetta di San Biagio, affiancato a Maria Rosa Cutrufelli, scrittrice siculo-milanese e donna di forte ingegno, autrice di un bel libro, dedicato a Mafiaville, “Pina, soldato di Mafia.”
Ci sono divise delle varie armi. Non trovo più Maria Rosa, mi volto indietro d’istinto. Giace a terra, copre il viso con una mano, non si lamenta. E’ stata colpita al volto da una giovane alta e snella. Le divise si materializzano.
L’aggressore è Pina, la ragazza che osserva, torva, Maria Rosa. E’ il soldato di mafia, protagonista del libro, capo di una gang gelese di minorenni che operava per conto proprio e sotto le bandiere della “Stidda”. Nonostante l’occhio nero – che Maria Rosa nasconde dietro occhiali da sole – l’episodio non avrà conseguenze. La scrittrice perdona, e Pina può partecipare alla presentazione del libro a lei dedicato. Come se non fosse successo niente.
Essendo trascorsi molti anni – tre decenni, più o meno – ho perso la memoria dei particolari, ricordo però di avere provato disagio, forse qualcosa di più: rabbia, impotenza. Pina sarà perdonata dalla “vittima” e dalle divise. La ferocia di quella aggressione “a freddo” mi parve inspiegabile, l’indulgenza insopportabile.
Credo che l’aggressione della scrittrice, nella folla di divise, in qualche modo rivela più di tanta cronaca, inchieste, editoriali dedicati alla mafia dei ragazzi. Durante la presentazione del libro nessuno, me compreso, avrebbe fatto alcun cenno all’episodio. Per via dell’età, forse, o per un bisogno di redenzione. Le paranze dei ragazzi di mafia, come Pina, si formano a Gela negli anni settanta, in piena rivoluzione industriale, senza rituali e liturgie, pungiute e santini, patti di sangue e reverenze. Gangster in erba che imitano i boss e li affrontano, senza paura.
Capire le ragioni per le quali il mio caro paese natio, Gela, si sia meritato orribili pagine di storia criminale, è doveroso. A Gela è stata concepita la quinta mafia del Bel Paese, conosciuta con il nome di “Stidda”, ed essa diviene così forte e pericolosa da dare lo scacco a Cosa Nostra, insediata a Gela con il clan riesino sin dagli anni cinquanta.
Quel che è successo a Gela non è plausibile: la quinta mafia sorge nel luogo in cui lo Stato si impegna a cambiare le sorti di una comunità meridionale povera, smarrita e capace solo di fare figli, investendo risorse senza precedenti. IL soldato Pina, cui uccisero il padre durante la guerra di mafia, è nata con l’industria ed è cresciuta insieme ad essa, si è fatta boss all’ombra dei giganti d’acciaio del petrolchimico. Pina ha respirato il clima della trasformazione, il meleodorante odore dei gas di scarico della fabbrica, come gli altri.
L’investimento pubblico avrebbe dovuto offrirle un’alternativa al crimine, accogliendola nella comunità finalmente liberata dalla povertà, ricca di opportunità. L’esplosione del crimine – anni Settanta e ottanta – racconta il contrario. Sul finire degli anni ottanta, fra Il 1987 ed il 1991, Gela conta centoventi morti, tanti quanti ne avrebbe provocato l’amianto ed altri additivi chimici fra gli operai di Gela. I tempi di gestazione del crimine sono identici a quelli dell’amianto e di altre sostanze cancerogene.
La “stidda” di Gela è la prima mafia autoctona, feroce e pervasiva, e la prima ad avere affrontato a viso aperto, tenuto testa e, per certi versi, sconfitto sul campo Cosa Nostra, servendosi ed associandosi alle bande di ragazzini. Le bande di malviventi costrette a mordere il freno, obbligate alla sudditanza, o nel mirino della Cupola – a Canicattì, Racalmuto, Campobello di Licata, ecc. – compresero che era possibile liberarsi dei padrini di Cosa Nostra e potere agire in proprio.
Si associarono agli scismatici ed ai boss caduti in disgrazia, per farsi largo. La Stidda di Gela affrontò gli uomini di Piddu Madonia, con le armi fino a contendere il territorio alla vecchia mafia. Soldi facili, metodi sbrigativi, mancanza di scrupoli, ferocia inaudita. Basta uno sgarro per togliere di mezzo lo spione, il nemico, chi non paga. Sparatorie in piazza, fra la gente. I ragazzini qualche volta falliscono, perché non hanno dimestichezza con le armi. I proiettili, talvolta, colpiscono a morte innocenti che hanno la ventura di trovarsi sulla traiettoria del proiettile.
I morti ammazzati sono così tanti che quando, il 17 novembre del 1991, con tre attentati contemporanei, vengono uccise otto persone e ferite gravemente undici, lo Stato non può non vedere. Cade il tabù della Cupola che non ha avversari, a Palermo e dintorni i corleonesi fanno piazza pulita dei nemici, costringendo alcuni boss a scappare in America o altrove, anche a Gela, dove un ex allevatore di bestiame originario di Collesano s’impadronisce della Stidda e di appalti nel settore del trasporto di prodotti petrolchimici.
Illuminante una circostanza, il conflitto fra gang si fa più virulento dal 1985/87, quando gli appalti e i subappalti dell’Anic e della Cassa per il Mezzogiorno (infrastrutture industriali, diga del Disueri) si assottigliano. La coperta è più corta per tutti, il tempo delle vacche grasse è finito (anni Sessanta). E’ in questa fase che la Stidda accentua la sua maligna presenza in ogni settore della vita pubblica, con le estorsioni, il traffico di droga.
E’ in questi anni che il business della quinta mafia scende in città, chiudendo in una morsa soffocante i commercianti di Gela, minacciati, intimiditi, puniti, talvolta con la morte. La diversità dell’organizzazione criminale autoctona si rivela sia nelle origini, negli anni Sessanta, quando s’infiltra nella malavita locale e pian piano costruisce le condizioni per mettersi in proprio, insinuandosi negli spazi lasciati fuori dalla vecchia mafia.
Negli appalti, subappalti, commesse della fabbrica, infatti, Cosa nostra e la “zona grigia”, colletti bianchi e politici, hanno messo radici e godono di forti protezioni. Gela, inoltre, non offre alternative all’industria, se non il terziario, il commercio. C’è il settore edilizio in grande spolvero, è vero, ma non c’è speculazione edilizia, settore che ha fatto la fortuna di Cosa Nostra a Palermo ed in altre città isolane, ma c’è la speculazione fondiaria, nelle mani dei professionisti del settore (notarile, ingegneria, geometri, mediatori immobiliari, ecc.).
Si comprano ettari di terreno, che vengono rivenduti a metro quadro, grazie a un colpo di penna su aree a vocazione agricola, che diverranno le periferie povere della città sprovviste di infrastrutture primarie (strade, servizi, condotte fognarie, ecc.). Chi acquista crede di avere fatto un affare, in realtà, a causa della mancanza di servizi, ha pagato i suoi cento metri quadri cento volte di più.
Nell’edilizia il ruolo dei colletti bianchi è centrale, e le protezioni politiche sono chiare e trasversali, seppure le motivazioni siano diverse. Qui la Stidda si accontenta di proteggere i venditori immobiliari e di guardare con simpatia quei professionisti che sono in grado di regalare qualche privilegio. Anche la stidda, dunque, si accontenta, pur mordendo il freno. A farne le spese è il settore del commercio, taglieggiato brutalmente, e talvolta colpito a morte, quando osa resistere alle esose vessazioni del racket.
Bisogna ancora una volta tornare agli anni Sessanta, dunque, quelli che permettono alla mafia riesina, fino qualche anno prima interessata al contrabbando di sigarette, al traffico internazionale della droga (Gela è solo approdo), alla compravendita di reperti archeologici procurati con scavi clandestini (tombaroli saccheggiano alcune aree di grande interesse, Gela è stata un sito ricco per via della vocazione religiosa).
E’ la guerra di mafia, il conflitto fra stiddari e boss della vecchia mafia, a provocare circa 120 morti, ed è la Stidda, con la sua pervasività, ferocia, audacia, con la sua assenza di “regole”(le paranze dei ragazzini, le “mazzatine” a viso scoperto e nei luoghi pubblici) a svegliare dal lungo torpore lo Stato. Bisognerà aspettare il 1991, dopo la mattanza, per mettere in campo ogni risorsa (uomini, investigatori, intelligence, presidi di sicurezza).
Con l’operazione Leopardo, il 17 novembre del 1992, le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria assicurano alla giustizia 203 membri della Stidda e di Cosa nostra di Gela, e 106 avvisi di garanzia. Accanto ai crimini, sui mandati di cattura, c’è il voto di scambio e l’accaparramento illecito di appalti, testimonianza delle relazioni incestuose della politica.
Le indagini accertano anche che i boss gelesi – stiddari della prima ora – si sono trasferiti nel milanese e nel bresciano. Nel Nord, tuttavia, anche gli stiddari cambiano pelle, emulano Cosa Nostra, si organizzano, patteggiano sui dividendi, si muovono con passo felpato, intrecciano amicizie e buone relazioni, riuscendo ad infiltrarsi. Niente pistole, finché è possibile.
La domanda cui ci rimanda la storia del crimine gelese è sempre la stessa: che cosa è mai accaduto perché quella città, scelta per essere redenta, divenga la capitale della Stidda, la nutrice della quinta mafia? Una risposta la si può cercare, e trovare, solo negli anni delle vacche grasse, nel sistema mefitico di concessione di appalti, subappalti e commesse nell’industria, nell’evoluzione di consuetudini abiette, di privilegi illeciti degli anni Sessanta (e qui il progresso c’è stato).
L’inquinamento sociale della comunità ha nuociuto più dell’inquinamento atmosferico, ha cambiato la pelle della città, perfino la vecchia mafia. Eppure, la parabola dell’industria che redime è stata predicata, senza contraddittorio per anni.
Sta tutto qui il paradosso di questa storia perversa, protetta dal silenzio. Invece che lo sviluppo, Gela ha partorito la quinta mafia. Facendo un torto ai soloni che hanno pontificato sulla buona sorte toccata a Gela grazie al petrolio, alla fabbrica, ai posti di lavoro.
Penso agli economisti paludati, gli accademici Prêt-à-Porter, i sociologi più avvertiti, i maÎtre à penser più cauti. Tutti in religioso silenzio, il day after. Nessuno oggi se la sente di dire chiaro e tondo quel che è sotto gli occhi di tutti, che l’arrivo della grande industria ha sfigurato la comunità, dotandola di padrini e pistoleri adolescenti.