L’ampiezza dei cambiamenti che ha portato con sé l’industrializzazione nel Gelese ha cominciato ad emergere in modo netto attraverso le cronache dettagliate dello smantellamento del petrolchimico.
E’un paradosso, ma è così: solo quando l’ospite prepara i bagagli prendiamo coscienza della perdita e facciamo il bilancio frettoloso di costi e benefici. Ogni pezzo dello stabilimento che si smontava è stato il tocco di una campana a morto che risuona in un assordante silenzio.E’ il marchio del fallimento al brand “polo di sviluppo”, assegnato a Gela.
Mentre l’Anic preparava i bagagli, tutto è sembrato più chiaro. Si è alzato il sipario sull’intera operazione di “sviluppo” decisa negli anni Sessanta dalle Partecipazioni statali e gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Lo scenario reale sembra essersi rivelato però solo agli spettatori di prima fila, cioè i gelesi.
Il caso-Gela, nonostante le implicazioni nazionali, è rimasto infatti desolatamente questione locale, a riprova della siderale distanza che corre fra Gela e Palermo o Roma. Le fanfare che hanno accompagnato la nascita dello stabilimento si sono zittite da tempo. Il ricordo dei toni enfatici e degli ingenui entusiasmi non si è ancora spento e costituisce una lancia inferta sul costato. Se l’avventura è finita male, insomma, ora sono solo fatti nostri.
E’ curioso che economisti, sociologi, editorialisti, politici competenti ed attenti a monitorare la “questione meridionale” tacciano. Ci sono molti studi sulla ripresa economica nella scena nazionale negli anni del boom industriale, nessuno sul polo di Gela. “Industrializzazione senza sviluppo. Il caso Gela” di Hytten e Marchioni rappresenta una eccezione, ed è estraneo ai grilli parlanti e ai circoli accademici nazionali. Il caso Gela ha subìto l’ostracismo, ed a pensarci bene la voglia di archiviarli come un incidente di percorso è apparsa chiara allorché l’eccezione – il libro di Marchioni e Hytten – è stata cancellata nelle 48 ore successive al suo arrivo nelle librerie, la qualcosa la dice lunga sul “carbone bagnato” del management dell’Eni.
Nessuna indagine, valutazione, monitoraggio, nemmeno post-mortem, sull’esito dell’intervento di sviluppo a Gela e sulle macerie lasciate nel territorio, e una impenetrabile cortina di nebbia sulla gestione del polo di sviluppo gelese sia nelle capitali – economica e politica - a Milano, Roma, sia Gela, nelle varie fasi della esistenza in vita della fabbrica. Un insabbiamento che non permette di individuare i vari livelli di responsabilità.
I manager-servitori dello Stato (bollati da Eugenio Scalfari come la Razza Padrona) hanno istaurato regole non scritte che di fatto hanno impedito di aprire spiragli alternativi all’inevitabile esito. Eppure non mancano elementi su cui soffermarsi. A partire dal Grande Imbroglio sul petrolio di Gela, troppo denso perché si potesse raffinare a costi competitivi, e dagli ormai celebri effetti moltiplicativi incaricati di rigenerare, economicamente, socialmente e culturalmente, il territorio gelese ed il suo hinterland.
E’ legittimo nutrire sospetti sull’insabbiamento dell’avventura gelese. Studiare il caso-Gela e farne oggetto di studio e confronto – politico, economico, industriale – avrebbe significato suscitare attenzioni sgradite sui metodi e criteri di gestione e disporre di un quadro realistico sui costi – economici e sociali - del gigantesco investimento nell’industria primaria.
La Razza Padrona non ha fatto tutto da sé, è stata aiutata dall’impreparazione regionale, dai patti e intrallazzi romani e milanesi e dai comparaggi locali. Fino a che punto, insomma, le istituzioni – governo, parlamento, Assemblea regionale siciliana – hanno partecipato alla fallimentare gestione del polo gelese ed hanno permesso le inconfessabili alleanze che le Partecipazioni statali e l’industria privata, dapprima ferocemente contraria all’invasiva presenza dello Stato nel Mezzogiorno, e poi consenziente.
Per queste ragioni bisogna allargare lo sguardo allo scenario nazionale sul caso Gela, servendosi di una lente d’ingrandimento che oltre a rilevare le contraddizioni e gli errori sul territorio, permetta di cogliere la complessità della vicenda e gli intrighi che l’hanno accompagnata fino alla fine.
E’ essenziale, tuttavia, che si faccia una distinzione fra l’era Mattei e quella di Eugenio Cefis (il Faraone Cefis, scrive Scalfari e Giuseppe Turani), e si provi a indagare sulle “ramificate complicità politiche nei gangli vitali della finanza e dell’industria pubblica” che hanno segnato il primo ventennio della fabbrica di Gela.
Eugenio Cefis succeduto, di fatto, a Enrico Mattei, cambia presente e futuro dell’Eni e poi si trasferisce alla Montedison (1971), sicuro di potere disporre, nelle retrovie (l’Eni) di uomini di sicuro affidamento, come Raffaele Girotti.
Mattei è il paladino dell’indipendenza nazionale (energetica), Cefis il gran commis dello Stato che rappresenta anche il Gotha dell’industria e della finanza privata. La guerra di posizione, fredda e cinica, dei poteri forti si svolge alle spalle dei lavoratori e delle comunità coinvolte nella petrolchimica primaria.
In questo grumo politico-economico che non distingue fra interesse pubblico e privato, fra partecipazioni statali e impresa privata, Gela rappresenta il vaso di coccio, una carta da giocare ora sullo scenario internazionale (con Mattei, sul petrolio dai pozzi di gela), ora sullo scenario nazionale attraverso patti di non belligeranza e scambi di “favori”.
Mattei sa di dovere restituire a Gela qualcosa al territorio che gli ha permesso di entrare nella scena internazionale con i pozzi di Gela, e fino a che rimane in vita, il sentiment di “debitore” avvantaggia Gela (strada a scorrimento veloce Gela-Catania, ripristino aeroporto Ponte Olivo, nascita della Scuola di formazione per il Mediterraneo). Dopo Bescapè e la sua morte, la mano passa agli uomini di Cefis, e Gela è una pedina del grande patto pubblico-privato stipulato con la benedizione dei “cavalli di razza” (leaders Dc) e la corriva impotenza dell’opposizione e del sindacato.
Una mucca da mungere e nient’altro.
Il petrolchimico di Gela garantirà il rispetto dei patti. L’Eni dovrà occuparsi del petrolio, della raffinazione e di petrolchimica primaria, mentre alla Montedison va tutto ciò che rimane, e cioè la petrolchimica secondaria e la chimica fine. Il calumet della pace impone la rinuncia ad ogni correttivo che preveda una espansione delle partecipazioni statali nella produzione secondaria.
Cefis domina pubblico e privato e punisce chiunque si metta di traverso come segnala la sorte toccata al suo nemico politico, Mancini, Ministro socialista, vittima di una campagna diffamatoria affidata alla rivista Candido. Liquidato Mattei, l’Eni finisce di essere una pericolosa “sfidante” nel settore della chimica.
Grazie all’assenza di interferenze e di controlli, la Razza Padrona fa quello che vuole, e può ignorare, a Gela ed altrove, ogni sollecitazione a favore delle aree “sacrificate” dalla missione nella petrolchimica primaria (in termini di ambiente e salute). Il caso-Gela e le aspettative deluse stanno dentro questo groviglio inestricabile di interessi. Non si può tuttavia ignorare ciò che avviene sul campo, a Gela, sin dall’origine dell’esperimento.
Prevedere con buon anticipo quel che sarebbe accaduto non avrebbe richiesto la sfera di cristallo, ma una saggia valutazione dello stato dell’arte a Gela. Nessun intervento industriale di qualche rilevanza in un’area povera a vocazione agricola, può avvenire in modo del tutto pacifico, senza cioè suscitare conflitti fra vecchio e nuovo, tanto da far apparire i costi sociali perfino eccessivi rispetto ai benefici.
Prevale invece l’idea (interessata) che in una prospettiva di lungo termine i conflitti vengano superati, gli squilibri e le tensioni sociali contenuti entro ambiti accettabili, e valga perciò la pena di investire nella “redenzione” del territorio con le armi spuntate della chimica primaria, grazie alle ripercussioni benefiche nell’agricoltura e nel settore dei servizi per l’accresciuta disponibilità economica e l’aumento dei consumi.
Sono questi presupposti generici a superare le resistenze sulle inevitabili distorsioni suscitate da un investimento a circuito chiuso. E’ il carattere peculiare ed irripetibile dell’insediamento petrolchimico dell’Anic, per la sua stessa natura, a rendere tali presupposti errati e strumentali, a causa della tipologia dell’impianto industriale ad altissima intensità di capitali, automatizzato, con un ciclo produttivo autosufficiente, che non può costituire un incentivo per la creazione di economie esterne, essendo la sua originaria vocazione unicamente legata alla disponibilità del giacimento petrolifero.
La scarsissima forza di assorbimento dell’economia locale, basata sull’agricoltura estensiva e poco redditizia, fa sì che una parte irrilevante delle risorse liquide immerse nel mercato locale dal settore industriale (monte salari, ecc.) possa essere utilizzata localmente, sia pure per consumi e per investimenti produttivi.
L’accresciuta domanda di beni di consumo da parte dei dipendenti dello stabilimento, in alcuni settori (per es. elettrodomestici, abbigliamento, generi voluttuari, alimentari ecc.), indurrà un aumento dell’offerta locale, ma sono solo le briciole ad entrare nel ciclo virtuoso economico, il modesto margine di guadagno sulla vendita dei beni prodotti altrove.
Solo il settore edilizio registra dinamiche attive, suscitate dalla speculazione fondiaria, che offre i maggiori benefici ai professionisti del settore – ingegneri, geometri, notari, mediatori ecc. – una ristretta cerchia di persone, che non investe a Gela i suoi guadagni, preferendo mantenere una prudente riservatezza per evitare guai di natura giudiziaria.
Ciò che cambia a Gela è il suo volto urbano, a causa dell’abusivismo edilizio, e dell’immigrazione di cosche provenienti dal Riesino e dal Palermitano, attratte dagli appalti lucrosi nell’indotto e con gli Interventi straordinari del Mezzogiorno, gestiti con scarsa attenzione per le infiltrazioni del crimine organizzato, talvolta assecondato consapevolmente.
Gli effetti espansivi interni (ai fini della creazione di industrie collaterali) avrebbero potuto prodursi non già come risultato delle opportunità offerte dall’industria petrolchimica, ma come effetto di una politica di espansione industriale da parte dell’Eni.
In definitiva l’assenza di dinamiche spontanee verso l’espansione industriali, lo sviluppo dell’area avrebbe richiesto una diversificazione del sistema produttivo, che i patti stipulati a Milano fra mano pubblica e finanza ed industria private ha reso impossibile, e una vigilanza assidua sulle commesse, lasciata nelle mani improvvide del management pubblico.
Il ruolo del comune è apparso inesistente sia sul piano politico che economico. Sono mancate risorse, competenze e visione del sistema creato dal poderoso complesso industriale. La sede fiscale dell’Anic rimane a lungo Milano, non a Gela, ed il gettito finanziario per i 2700 dipendenti del petrolchimico finisce nelle casse della capitale lombarda. L’ennesima beffa.