Ma il vero “tesoro” continuò ad essere il muro di Vincenzo Interlici.
Studiato dagli esperti, visitato dai primi turisti, la preziosa muraglia lunga 250 metri, imponente nella sua mole, mostrò subito, prima di essere messa allo scoperto, di sfaldarsi, di rompersi a contatto con l’aria. Formata di grandi conci di pietra arenaria, era giunta fino a noi perché interamente sepolta dalla sabbia che l’aveva protetta come a Pompei la cenere, i lapilli e la lava del Vesuvio avevano conservato sotto una coltre spessa l’intera città.
Prima ancora di riportare alla luce il muro bisognava però tentare di salvarlo. Il sovrintendente di Agrigento si rivolse all’Istituto centrale del restauro.
Intanto mentre si studiava il modo migliore per proteggere questa singolare opera greca, il professore Griffo diede ad Interlici (autonominatosi guardiano a vita del muro) ordini severi. Nessun visitatore poteva scalfire le pietre, segnarle con il proprio nome o fotografarle con macchine che avessero avuto bisogno di un treppiede. Interlici prese le istruzioni alla lettera.
Un giorno un turista inglese volle riprendere con la sua macchina da presa, a passo ridotto, Capo Soprano, gli scavi e le prime mura affioranti tra la sabbia. Interlici, che era stato munito dal sovrintendente di un cartello contenente le proibizioni, scritte in quattro lingue, mostrò gli ordini avuti. L’inglese fece finta di non capire.
Allora Interlici, si tolse da tracolla lo schioppo, lo puntò sul petto del malcapitato turista, poi gli urlò: «Vossìa fotografa ma Interlici va in galera!». Dopo quell’incidente furono revocate ad Interlici le disposizioni e gli fu imposto si montare la guardia senza schioppo.
Intanto “don Bastiano” continuava gli scavi. Ma quanto danaro sarebbe occorso per liberare il muro dalle due di sabbia sovente alte più di dodici metri? Adamesteanu calcolò 60 milioni. Però Gela era tutta un museo sepolto. C’era da scavare l’acropoli verso la zona di “Molino a Vento”, approfondire le ricerche un po’ dovunque.
Si strappò i capelli
Adamesteanu però non era il tipo di alternare le ricerche archeologiche con altre ancora più sottili: chi avrebbe trovato i milioni necessari? Come farli saltar fuori? Fu Griffo a tessere le fila di questa difficile trama. Interessò l’on. Salvatore Aldisio, il più illustri dei cittadini di Gela, i ministri della P.I. e del Lavoro, gli assessorati per la Pubblica Istruzione e per il Turismo del governo regionale della Sicilia, l’Ente provinciale per il turismo di Caltanissetta, la “Pro Gela”, il Comune, e centinaia di provati cittadini.
I danari cominciarono a giungere da varie parti, ma non sarebbero stati sufficienti se la Cassa del Mezzogiorno non fosse intervenuta in modo massiccio con 300 milioni. Fu così possibile iniziare il colossale sbancamento di oltre 200 mila metri cubi di sabbia. Messa allo scoperto l’intera muraglia, la si spruzzò subito con plexiglass liquido. E ciò allo scopo di indurirne la superficie. Più tardi il restauro venne affidato all’architetto romano Franco Minissi (a cui si deve, tra ‘altro, la stupenda sistemazione del museo nazionale etrusco di Villa Giulia.
Minissi pensò bene di riprodurre la situazione in cui si era trovato il muro sotto terra. Ma per arrivare a ciò sognava esercitare sulle pareti una pressione che si contrapponesse ad altre “spinte” prodotte nell’interno dei conci di arenaria. Minissi ideò allora due coperture: una immensa tettoia e un insieme di lastre di cristallo di un metro per un metro, tenute con speciali borchie e con tiranti in alluminio inossidabile. Ma per poter fare questo, il restauratore dovette trasformarsi, come egli racconta, in un “chirurgo” cattivo.
Frò il muro da parte a parte mentre l’architetto Adamesteanu si strappava i capelli per il dolore. Fu una operazione necessaria. Il muro, posto sotto vetro, coperto da una tettoia mastodontica, perse indubbiamente gran parte della sua bellezza ma fu salvato per sempre. Senza queste misure protettive sarebbe forse durato meno di un anno.
Intanto era giunto a dar man forte a “don Bastiano” il dottor Pietro Orlandini, un giovane archeologo romano che pareva fatto apposta per contrastare con il suo collega rumeno. Trasandato e svagato Adamesteanu, preciso, elegante Orlandini. I due studiosi cominciarono a lavorare assieme, a scavare assieme, a vivere insomma come se fossero stati sempre amici, sempre vissuti l’uno accanto all’altro. E furono battezzati subito “I Dioscuri”.
Per impedire che le tempeste di sabbia tornassero a seppellire il muro, Orlandini piantò, di fronte al mare, 40 mila acacie ed eucalipti: una distesa di verde che oggi è la più bella cornice alle "immani” mura di Gela cantate da Virgilio.
Contemporaneamente Orlandini cominciò una campagna di scavi in località “Molino a Vento”, dove il sovrintendente Griffo aveva pensato fosse l’acropoli della città antica. La supposizione si dimostrò esatta. Intanto Griffo, mentre i suoi due archeologi proseguivano le ricerche (Adamesteanu aveva spinto le indagini nella zona di Butera, con risultati strabilianti, scoprendo le rovine di ben sette città), iniziava altra “campagna” per trovare al più presto nuovi fondi.
Oggi questo è il bilancio di Gela: si sono spesi oltre cinquecento milioni, ma si è scoperto un materiale enorme: interi quartieri di abitazione, una necropoli, alcuni bagni termali, centinaia di monete, teste fittili, antefisse, anfore, crateri, decine di colonne e capitelli. Per conservare questi tesori la Cassa del Mezzogiorno, ancora una volta benemerita della valorizzazione della Sicilia, ha stanziato altri 100 milioni. Così è stato possibile costruire, proprio sull’acropoli, un museo che è tra i più moderni d’Italia.
Ora bisognerà inaugurarlo se i cittadini di Gela faranno un ultimo sforzo. Mancano, infatti, le vetrine e tutte quelle suppellettili che rendono confortevole un museo.
Forse allora il ministero della Pubblica Istruzione si deciderà a nominare i guardiani che occorrono non soltanto per custodire il celebre muro, ora “difeso” dal solo Interlici, ma anche per il museo e per l’acropoli.
Se queste nomine fossero di competenza del sovrintendente Griffo o degli archeologi Adamesteanu e Orlandini, la scelta sarebbe presto fatta: i guardiani sarebbero i vecchi operai che da otto anni seguono come cani fedeli, dappertutto, gli inseparabili “Dioscuri” di Gela.
Giorgio Pillon (parte 2ª - fine - La 1ª parte è stata pubblicata il 6 marzo scorso)