Nelle due ultime settimane, su questo giornale, prima Franco Infurna e poi Salvatore Parlagreco hanno sapientemente descritto la parabola conclusiva di quella che fu l’Anic di Gela,
la cui fine è stata dichiarata a Roma il 6 novembre 2014. “Vittoriosa sconfitta”, nell’ossimoro che è nel titolo del racconto del maestro Totuccio Parlagreco, pubblicato dal Corriere di Gela la scorsa settimana, si racchiude il conflitto tra la città e la sua fabbrica. Un rapporto di avversione e proficuo attaccamento interpretato dai politici locali che, quasi sempre, all’Eni hanno chiesto qualcosa inveceche confrontarsi su qualcosa.
Alla fine dello scorso secolo Gela è stata inserita, dal governo nazionale, tra le aree a forte crisi industriale: Eni scrive nero su bianco che smobilita e riduce, annuncia il suo disimpegno sulla chimica, prospetta una drastica riduzione del core business petrolifero. È scritto e ci sono le firme di tutti gli attori, compresi i sindacati e gli amministratori locali dell’epoca. Contestualmente lo Stato, come per altre zone a declino industriale, garantisce risorse specifiche: nasce il contratto d’area e viene costituita la società “Gela Sviluppo”. Il territorio dovrà imparare a camminare con le proprie gambe e non continuare ad aggrapparsi alla coda del cane a sei zampe.
In città sembra soffiare un vento nuovo, insieme ai fumi e ai miasmi che spirano da est, comincia a sbocciare la consapevolezza che Gela sia a una svolta, ci sono pure le condizioni politiche: anche fuori dal Comune, nel detestato capoluogo provinciale, le leve del comando passano ai gelesi, il presidente della Provincia, i segretari provinciali dei sindacati confederali, il presidente della Camera di Commercio sono tutti di Gela. Ci sono le risorse, ci sono gli uomini: questa volta non si può fallire. La storia ci dice che, purtroppo, i risultati non hanno rispettato le attese. Sono nate delle imprese che dopo quasi un ventennio vivono ancora, tuttavia altre non sono mai decollate e in alcuni casi neppure partite. Conflitti, inganni e invidie tra gli attori locali hanno concluso quella stagione di aspettative.
Ma il popolo gelese non perde la speranza neppure davanti all’evidenza che la sua fabbrica viene drasticamente ridimensionata, dopo 40 anni non può finire l’idillio solo perché una legge dello Stato considera il carbone prodotto dalla centrale termoelettrica scarto di lavorazione. All’inizio del 2002 la gente scende in strada e grida “meglio morire di cancro che di fame”, non toglieteci il lavoro, a Gela lavoro significa stabilimento. Il referente gelese a Roma è della maggioranza governativa, così un codicillo trasforma lo scarto in combustibile per alimentare la centrale. Problema risolto.
Proprio no, per l’Eni il sito di Gela non è più strategico da tempo. All’industria che non è più di Stato si chiede una funzione sociale che non gli appartiene, il nuovo corso basato sulla programmazione negoziata non rassicura. Gli anni passano, il periodo d’oro non risuscita, negli anni avvenire gli scioperi continuano. Il decennio della speranza, dell’agognata svolta finisce. Alla società Raffineria Gela (RAGE) il compito di attuare il nuovo corso pianificato dal management Eni.
Le ultime illusioni hanno l’origine modesta e la faccia “tost” di Rosario Crocetta, sindaco per 7 anni e poi parlamentare europeo, è lui il nuovo presidente della Regione siciliana, in lui sono riposte le residue speranze dei gelesi. Fiducia disattesa o destino già scritto dall’alto, lontano da Gela? Il 14 agosto del 2014, tra l’indifferenza dei gelesi, arriva in città il “fonzie di Rignano” il capo del governo che viene a dare “la soluzione finale” al caso Gela: #statesereni, problema chiuso.
Infatti, è il 6 novembre 2014 quando a Roma si sottoscrive il protocollo d’intesa per il futuro dello stabilimento Eni di Gela. Il testo inizia, più o meno, cosi: la fabbrica gelese ha prodotto perdite per oltre 2 miliardi di euro… Eni non va via, riconverte, lo stabilimento diventa bio, ad andare fuori saranno tanti lavoratori, non c’è più posto per tutti. La fabbrica che ha creato benessere diffuso per un intero territorio sarà una cosa diversa, non si capisce cosa, ma sarà diversa.
Attoniti, i gelesi aspettano al varco i signorotti del potere, i “traditori” che hanno firmato il protocollo d’intesa. Alle elezioni comunali del 2015 il sindaco renziano del Pd non viene riconfermato, il presidente della Regione viene sonoramente fischiato: si nasce popolano e si può diventare confindustriale.
Gela antica e forse mai moderna, oggetto di tanti studi di sociologia e di economia applicata, icona del nuovo meridionalismo, simbolo dello sviluppo disordinato. La città dell’inquinamento che fa ammalare e dove le malformazioni dei bambini registrano punte da primato internazionale. Lo rivela un’inchiesta pubblicata in questi giorni dal settimanale L’Espresso che già in passato, nel dicembre del 2015, aveva scritto sull’argomento.
Si ammaini la bandiera del cane a 6 zampe, si buttino giù le ciminiere, ma soprattutto si bonifichi seriamente. Al posto delle torri una volta fumanti ci saranno spazi per insediare nuove industrie, quali?
Durante il “secolo breve” la città è stata in qualche modo protagonista della storia d’Italia, qui nel ‘43 sono sbarcati gli americani e dopo meno di 20 anni il petrolio ha rivoluzionato tutto. Adesso, dopo due decenni del nuovo secolo, Gela sembra avere il passo lento della sua littorina che per arrivare a Catania ci mette più di 5 ore, lo stesso tempo che il Freccia Rossa impiega da Milano a Napoli.
Per Gela tutto è una chimera, non c’è un’infrastruttura di cui si conosce lo stato della progettazione e del finanziamento per realizzarla. Una città isolata, distante fisicamente dai principali luoghi siciliani. L’unico centro siciliano di medie dimensioni che non ha nessun rapporto con le quattro università regionali. È di queste ore la notizia di una convenzione tra la Kore e l’Eni per decentrare a Gela un corso di laurea specialistica in Ingegneria dell’ambiente e del territorio, notizia importante e positiva ma ancora una volta le istituzioni e le forze sociali gelesi sono ridotti a spettatori. Forse è arrivato il momento che la buona volontà di tanti diventi azione culturale e forza civica per la città: questo giornale se ne faccia portavoce.