Son passati 30 anni dalla "strage della sala giochi" di Gela.
I più anziani ricordano bene quei momenti terribili, i più giovani no. Sono quasi due le generazioni che non sanno o non ricordano: quelli che erano ragazzini allora e quelli che sono nati dopo. Chi non dovrebbe dimenticare è la città, la sua classe dirigente, sono le sue istituzioni, perché quel giorno è stato impresso a fuoco un marchio infamante sul nome di Gela nel mondo: "Mafiaville", città della mafia, città mattatoio.
Son passati 30 anni dalla "strage della sala giochi" di Gela. I più anziani ricordano bene quei momenti terribili, i più giovani no. Sono quasi due le generazioni che non sanno o non ricordano: quelli che erano ragazzini allora e quelli che sono nati dopo. Chi non dovrebbe dimenticare è la città, la sua classe dirigente, sono le sue istituzioni, perché quel giorno è stato impresso a fuoco un marchio infamante sul nome di Gela nel mondo: "Mafiaville", città della mafia, città mattatoio.
Quel pomeriggio del 27 novembre del 1990 in meno di mezzora, in quattro agguati quasi simultanei, i picciotti della "stidda" scatenarono l'inferno all'apice della guerra contro "cosa nostra", seminando terrore e morte per contendersi il controllo malavitoso del territorio e degli appalti. Alla fine dei raid si conteranno 8 morti ammazzati e 7 feriti.
Ad agire furono quattro gruppi di fuoco armati di pistole e fucili, in sella a moto e su autovetture che partirono da un covo di Settefarine per sparare all'impazzata contro le vittime designate. Il raid iniziò con l'assalto alla sala giochi "Las Vegas" di Corso Vittorio Emanuele, a due passi da Piazza Salandra, affollata di giovani.
Fu una carneficina: 3 morti e 6 feriti tutti gravi. Dentro e fuori il fuggifuggi generale, il panico. Scatta l'allarme in città. Si mobilitano polizia e carabinieri e pure i medici dell'ospedale dove il pronto soccorso si era trasformato in infermeria da zona di guerra. Vengono chiamati i medici a riposo e quelli in ferie. In via Tevere il secondo blitz. Il gruppo di fuoco esplode almeno 50 colpi contro un box per la vendita di frutta e verdura, quasi all'incrocio con via Venezia.
Qui vengono uccisi due dei tre proprietari, ferito il terzo, e un cliente viene ammazzato senza colpa alcuna. Trecento metri più a est, in via Venezia, davanti a una macelleria, una terza squadra di stiddari ammazza a colpi di pistola un commerciante all'ingrosso di carni, ritenuto dalla polizia "uomo di rispetto" vicino a "cosa nostra".
L'ultimo agguato, alle 19,20, viene compiuto in via Butera, vicino al cimitero monumentale, a colpi di fucili e pistole, contro un incensurato la cui colpa era quella di essere cognato di affiliati alla cosca del boss "Piddu" Madonia. Lo Stato reagì inviando il prefetto antimafia di Palermo, Domenico Sica, che lanciò un appello alla popolazione perchè collaborasse. L'indomani, nella periferia nord della "città mattatoio" fu scoperto il covo dei killer e arrestato uno dei complici. A Gela arrivarono rinforzi militari ma anche giornalisti da ogni parte del mondo. La notizia della strage destò stupore e sdegno e fu riportata nelle prime pagine dei giornali italiani e all'estero.
Trent'anni dopo, in città, nessuna cerimonia ufficiale, nessun manifesto per ricordare quantomeno le vittime innocenti di quella carneficina. Forse si cerca di dimenticare ma c'è sempre da fare i conti con la storia perché quel che è successo non abbia più a ripetersi. Intanto, la Giustizia, anche se lenta, procede sul suo cammino chiamando sicari e pentiti a rispondere delle loro azioni criminose, dato che le stragi, gli omicidi, non vanno mai in prescrizione. E di morti ammazzati nei sei anni di guerra di mafia (1988-'94) a Gela ce ne furono tanti, troppi, più di 120.
Fu un quotidiano francese a definire Gela "Mafiaville". Un marchio che ancora oggi la città non riesce a cancellare malgrado la sua industrializzazione, l'agricoltura, il commercio e la ricchezza di 2.700 anni di storia, di cultura e di testimonianze archeologiche.