Quando con il Protocollo del 2014 fu ufficialmente dichiarata la fine della raffinazione convenzionale a Gela e la sua "riconversione in green", ci fu raccontato che l'Eni, considerato il panorama internazionale petrolifero fortemente negativo, per contenere le perdite avrebbe dovuto ridurre, fino a quasi dimezzare, la sua capacità di raffinazione.
Un obiettivo strategico a tutti gli effetti, poiché il business della raffinazione in ambito downstream (a valle della filiera produttiva) – ci dissero – non tirava più. Assolutamente l'inverso per la perforazione e l'esplorazione in ambito upstream (a monte della filiera produttiva), guarda caso l'ambito da cui proveniva l'ad De Scalzi, che assurgeva così a vero e proprio “core business” del cane a 6 zampe.
Ci venne raccontato che raffinare comportava perdite, dovute alla scarsa redditività marginale, che in Europa diverse raffinerie stavano chiudendo e così via, il tutto inserito nel preambolo del sopra richiamato protocollo. Non era una favoletta. Le stesse cose De Scalzi le aveva anticipate agli azionisti – tra i quali lo stesso Stato italiano - a Londra alcuni mesi prima, presentando il piano strategico aziendale, un piano cioè che esprime la mission e la vision strategica pluriennale.
Fino allora in Eni si era preferito bilanciare il peso dell'upstream (perforazione ed esplorazione) e del downstream (raffininazione e chimica), perché considerati business "anticiclici": in altri termini, nei periodi in cui perde l'upstream a guadagnare è il downstream; viceversa quando perde il downstream a guadagnare è l'upstream.
Ciò dipende dal prezzo del petrolio: ad un calo del prezzo del petrolio, ad esempio, a perdere è l'upstream (estrazione materia prima) ma a guadagnare è il downstream (raffinazione materia prima), perché si alza il margine di guadagno nel lavorare una materia prima che costa di meno. Non era, pertanto, un caso se in passato l'Eni teneva, come si suol dire, "in pancia" entrambi i business giacché si compensavano a vicenda.
La visione strategica di De Scalzi, esplicitata all'assemblea degli azionisti nel 2014 fu quella invece di un drastico ridimensionamento dei volumi di raffinazione, prevedendo la vendita di almeno tre raffinerie ubicate in territorio nazionale, vale a dire Livorno, Taranto e Gela. La più facilmente aggredibile in quel momento era proprio la Raffineria di Gela con una linea chiusa e l'altra ferma per alcuni impianti requisiti a causa di un piccolo incendio.
Ma nessuna raffineria è stata venduta e una, solamente una, è stata chiusa: Gela. Inoltre, a distanza di 4 anni, apprendiamo che Eni, attraverso lo stesso De Scalzi, ha deciso di recuperare capacità nella raffinazione convenzionale, con un investimento a dir poco imponente, nei paesi arabi dove ci sono raffinerie più grandi e quindi con una redditività maggiore, in quanto ottimizzano meglio i costi.
Tale investimento è di 3 miliardi e 300 milioni di dollari: tanti soldi e soldi veri, perché “cash”. Eni acquisisce il 20% azionario in Adnoc Refining (joint-venture di commercializzazione dei prodotti petroliferi) ed incrementa la propria capacità di raffinazione complessiva del 35%. Una colossale marcia indietro rispetto alla previsione di una drastica e definitiva riduzione di tale capacità, con tanto di master plan presentato da De Scalzi agli azionisti 4 anni fa.
Beninteso, considerata in sé l'operazione ha una sua precisa “ratio”. L'efficienza delle tre raffinerie (due in Ruwais, una in Abu Dhabi, per una capacità complessiva di 900 mila barili al giorno) operate da Adnoc è talmente elevata, per volumi e dimensioni, da far abbassare il “break even point” o punto di pareggio.
Si tratta del costo del barile che ripaga il business. Un costo che era di 3 dollari a barile col precedente assetto in Eni e che diventa di 1 dollaro e mezzo (praticamente dimezzato) a barile, dopo questo massiccio investimento. Significa che, se anche mi pagano 1 dollaro e mezzo a barile, continuo ad avere un “pareggio di bilancio” nella raffinazione. Ciò legittima la stessa presenza alla firma del Governo italiano, rappresentato dal presidente del Consiglio Conte, in quanto azionista di maggioranza relativa (33% in Eni).
Ciò che che non ci convince è che grazie a tale operazione Eni aumenta la sua capacità di raffinazione per servire i mercati dell'Asia, Africa ed Europa. Ma, la Raffineria di Gela chiusa per una visione strategica del panorama internazionale del downstream rivelatasi errata come dimostra l'immenso investimento “cash” (soldi veri che Eni esce di tasca propria) negli Emirati arabi per servire i mercati asiatico, europeo ed africano, non si trova per caso ubicata in Europa, affacciata al Mediterraneo, davanti l'Africa?
Evidentemente, il predecessore di De Scalzi, ossia Paolo Scaroni, non era poi così folle nel dichiarare che mai e poi mai, considerata la posizione “geopolitica” di questo sito industriale, avrebbe venduto (figuriamoci chiuso) la Raffineria di Gela. Altresì, investire 3 miliardi e 300 milioni “cash” in raffinerie estere, chiudendo nel territorio italiano una Raffineria (Gela) e tenendo le altre (tutte tranne Sannazzaro) sotto minaccia di vendita/dismissione, non si chiama delocalizzazione? Ed a farlo non è una fabbrichetta di San Donato Milanese, bensì una delle più grosse partecipate dello Stato.
In definitiva, per una visione strategica del suo amministratore delegato, un importante “Major” come Eni esprime un giudizio perentorio e definitivo sulla morte della raffinazione convenzionale e dopo solo 4 anni, confuta questo apocalittico giudizio con una delle più ingenti operazioni di delocalizzazione condotta all'estero da una partecipata dello Stato: il tutto nel silenzio più assoluto del governo giallo-verde, delle forze politiche di opposizione di colore rosso, nero, blu, tricolore, arcobaleno e via discorrendo, senza dimenticare le sigle confederali ed autonome sindacali.
Per le stesse ragioni, viene chiusa una Raffineria in posizione strategica, nevralgica, per i mercati internazionali, quando sarebbe bastato un investimento pari ad un cinquantesimo dei 3 miliardi e 300 milioni, per ammodernarla e renderla più efficiente: il tutto nel silenzio più assoluto di un'intera comunità messa letteralmente in ginocchio da tale chiusura.
Ma davvero Gela non ha proprio niente da dire sugli effetti di un protocollo giustificato da una politica industriale stravolta dalla stessa multinazionale solo 4 anni dopo? Qui non si tratta di puntare l'indice contro De Scalzi e chiederne la testa. A quello, eventualmente e se dovesse essere il caso, ci penseranno gli azionisti. Né tantomeno si tratta di rivendicare un ritorno alla raffinazione convenzionale, perché sarebbe davvero una favoletta. Qui si tratta di smetterla una volta per tutte con questo atteggiamento di perenne inerzia, in silenziosa attesa di un uomo illuminato come fu Mattei. Non ci saranno altri Mattei e nessuna manna cadrà dal cielo.
In questi giorni Eni è entrata nel mercato delle energie rinnovabili in Australia e nessuno a Gela alza la mano per fare presente questa è la città più soleggiata della Sicilia ed una dei punti più soleggiati del mondo. Il “mostro” ha appena firmato a Lodi (alla presenza del Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Guido Guidesi, esponente lodigiano del Governo) un patto per il Biogas agricolo, mentre nessuno a Gela ha mai provato in concreto a coinvolgere Eni nella vicenda del parco agrofotovoltaico.
A Gela si fanno gli impianti pilota e gli accordi li fanno le altre città, come nel caso di Ragusa i cui rifiuti organici, grazie ad un migliore trattamento sul piano qualitativo, saranno impiegati nell'impianto Forsu (Frazione Organica Rifiuti Solidi Urbani) di contrada Piana del Signore. Insomma, quantomeno un dibattito andrebbe aperto sul perché reiteriamo ad essere così idioti da pagare col sangue gli effetti di politiche industriali, senza mai manco provare a cogliere e cavalcare le opportunità che quelle stesse politiche industriali magari comportano. O no?